domenica 29 settembre 2013

Politica e utopia: la ‘Repubblica’ di Platone nel XX secolo

di Francesco Fronterotta (francesco.fronterotta@unisalento.it)

La politica disegnata dalla Repubblica platonica è stata fortemente condannata nel Novecento, in specie da Popper, a causa del suo “totalitarismo” e della sua distanza dai valori del liberalismo. Un modo per “discolpare” il progetto politico platonico da queste accuse è stato quello di rivendicare il suo carattere di “utopia”. Tuttavia, più che sulla “utopia” della Repubblica bisognerebbe insistere sulla sua “normatività”.

La Repubblica di Platone non cessa di suscitare, fra i filosofi e i commentatori, un dibattito intenso e controverso, tanto dal punto di vista del progetto etico e politico che disegna, quanto sul piano delle implicazioni psicologiche, epistemologiche e ontologiche connesse alla definizione del sapere dei filosofi che, secondo Platone, devono essere collocati alla guida di tale progetto. Non è questo, naturalmente, il contesto opportuno per suggerire un’interpretazione d’insieme della Repubblica; quanto mi propongo è, più modestamente, di segnalare alcune delle principali linee di discussione emerse nel dibattito del XX secolo e limitatamente all’esame del progetto platonico della καλλίπολις. Una difficoltà preliminare, che va in qualche modo immediatamente affrontata, riguarda proprio l’oggetto del dialogo: se Diogene Laerzio non mostra dubbi nel catalogare la Repubblica fra i dialoghi politici di Platone (III 50-51), è abbastanza facile constatare come l’opera sia caratterizzata da un intreccio tematico che non si lascia sciogliere in una scansione disciplinare ben determinata, se non al prezzo di schematizzazioni in parte forzate.
Il dialogo, infatti, si snoda come segue: mentre il libro I introduce il tema della giustizia, della sua natura e della sua definizione, con un’andatura e uno stile che ricordano abbastanza esplicitamente le indagini socratiche condotte nei cosiddetti “dialoghi giovanili”, con la consueta contrapposizione, a tratti assai violenta, alle posizioni ascrivibili alla sofistica, a partire dal libro II, il problema della giustizia viene esteso, per analogia, all’ambito della costituzione e della struttura della città, forse meglio identificabile per il suo carattere concreto e storicamente determinato (368b-369b), con il tentativo, condotto ancora nel libro III, di effettuare una ricognizione completa della struttura socio-istituzionale della città, con l’individuazione delle classi che la compongono e con la rigorosa ripartizione dei compiti e delle funzioni che a ciascun cittadino sono assegnati. Ma è il libro IV che produce una svolta nell’analisi, perché, riproponendo l’analogia fra l’indagine sulla giustizia a livello individuale e al livello della città, giunge a stabilire la sua definizione universale come consistente nell’esercizio, per ogni individuo (e per ogni componente psico-fisica di ogni individuo) o per ogni agente istituzionale (cittadino, classe sociale, città), della sua funzione propria: la giustizia è, di conseguenza, τά έαυτου πράττϵιν (433a), in base al principio, che rappresenta un filo conduttore narrativo e a un tempo un nucleo teorico situato, implicitamente ed esplicitamente, al cuore della Repubblica, secondo cui l’esercizio, da parte di ogni elemento particolare di un insieme, della propria funzione naturale compone, garantisce e preserva l’equilibrio armonico dell’insieme, dunque, in tal senso, la sua τάξις, che coincide di fatto con la “giustizia” della sua disposizione strutturale e funzionale. A partire dal libro V, la sfida rivolta a Socrate dai suoi interlocutori consiste nel precisare le condizioni di possibilità di una simile struttura istituzionale, di cui vengono fissate dapprima le “scandalose” tappe socio-politiche, con le celebri “ondate” relative alla necessità della comunanza pianificata della proprietà, della produzione dei beni e della procreazione, fino alla più ardua esigenza del governo dei filosofi. Particolarmente quest’ultimo assunto richiede, dall’ultima parte del libro V e fino al VII, una rigorosa giustificazione, che si articola attraverso un’assai complessa dimostrazione che sancisce la differenza fra il sapere dei filosofi e le opinioni degli uomini comuni, premessa indispensabile per spiegare e difendere il ruolo dominante dei filosofi nella città, e di seguito stabilisce l’opportuno curriculum formativo dei futuri filosofi-governanti. Il libro VIII esamina poi, con il rigore diagnostico di una vera e propria analisi sociologica della natura e delle degenerazioni del potere politico nella dialettica del suo esercizio istituzionale e sociale, le diverse forme di governo storicamente corrispondenti alle forme assunte come canoniche nel pensiero politico greco e, del resto, di fatto coincidenti con i principali generi di regime concretamente prodottisi nel mondo greco, cui segue, nel libro IX, una ripresa del tema originale della giustizia, al fine di dimostrare, tornando nuovamente sul piano psicologico individuale, la superiorità e la felicità del giusto rispetto all’ingiusto, in virtù del parallelismo stabilito, sul piano della forma di governo, con la relazione fra il sistema istituzionale più giusto rispetto all’ingiusto. Il dialogo, che potrebbe a questo punto dirsi compiuto, prosegue invece nel libro X, nel quale si torna, pur se con accenti diversi, sulla giustificazione della superiorità del sapere dei filosofi, che va assunto come paradigma pedagogico e gestionale della condotta individuale e collettiva, rispetto al sapere comune rappresentato dalle forme abituali della cultura tradizionale, per esempio dell’arte imitativa e della poesia, epica o tragica. Un lungo e complesso monologo mitologico, dedicato all’esposizione del destino dell’anima individuale nel corso della sua vicenda immortale, conclude la Repubblica, trasponendo di fatto l’affermazione della superiorità e della desiderabilità della giustizia rispetto all’ingiustizia, dall’ambito psico-fisiologico e socio-politico all’ambito propriamente metafisico ed escatologico.

lunedì 9 settembre 2013

Francisco Franco e le metamorfosi del potere

di Pietro Piro (sekiso@libero.it)

Fabio Lo Bono intervista[1] Pietro Piro sul libro: Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza e del potere.
Lo Bono: Abbiamo il piacere di averti qui con noi e voglio approfittare per farti delle domande ad “ampio raggio”. In questi anni ti sei occupato di temi molto importanti, nelle pubblicazioni, nei seminari, nei dibattiti. Però, mi pare che la questione del potere ti stia particolarmente a cuore, mi sbaglio?
Piro: Il tema del potere è una questione fondamentale che riguarda l’intero impianto del mio lavoro critico. Credo che ogni uomo sperimenti sulla sua pelle – per così dire  il problema del potere. Gli psicoanalisti ci hanno insegnato che nel bambino, il potere del genitore che si esprime anche attraverso il semplice sguardo[i], può essere vissuto come una forte violenza. Questo significa che noi entriamo in contatto con il potere sin da piccoli e poi, per tutta la vita, non facciamo altro che oscillare tra il desiderio del potere e la paura del potere[ii]. Il potere esercita una doppia fascinazione: ci attrae e ci spaventa allo stesso tempo[iii]. Però, occuparsi del potere per me significa andare aldilà della fascinazione. Indagare ciò che sta a fondamento del potere.