venerdì 9 dicembre 2016

Antropologia e politica. Forme di convivenza

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; II di 4)

1. La moderna immagine dell’uomo

Gnothi sauton, conosci te stesso. L’antico precetto delfico-socratico esprime quella forma di conoscenza indispensabile alla cura di sé (epimeleia heauton) la quale, a sua volta, è propedeutica all’esercizio di un pensiero critico e di una prassi etica che permettano agli uomini di prendersi cura di sé e relazionarsi armoniosamente fra di loro. Problematizzare la vita, la vita che siamo, risulta così essere l’imprescindibile punto di partenza per qualsiasi riflessione filosofico-politica, per non correre il rischio di modellare l’abitante sulle esigenze della casa, anziché edificare la casa a misura dell’abitante. La questione dell’humanitas assurge così a problema filosofico che, come emerge dallo scenario disegnato dall’antropologia filosofica moderna, rende evidente come l’uomo non sia una mera somma di animalitas e rationalitas, immaterialità e materialità, ma un complesso nodo di forze diverse[1].

Nelle teorie filosofico-politiche è pressoché sempre assente la problematizzazione della questione Uomo: ci si dedica all’analisi delle dinamiche socio-politiche ed alla risoluzione di questioni particolari per settori specifici della vita umana senza passare, se non in maniera latente e quasi accidentale, attraverso una preliminare definizione dei caratteri del soggetto di tali dinamiche, senza porre la questione di chi sia, che identità abbia, quell’essere intorno al quale, dal quale e per il quale le suddette teorie sono elaborate. Prima di cercare di avanzare una proposta filosofico-politica, è quindi necessario passare per la questione uomo; tale questione verrà qui affrontata sulla scorta della moderna antropologia filosofica, la cui immagine dell’uomo, di questo “uomo”, si vuole qui accettare e porre alla base di un’argomentazione che dal livello ontogenetico prosegua poi su quello filogenetico. A tale riguardo, i contributi più significativi della moderna antropologia filosofica sono stati portati da quei pensatori che, non a caso, ne vengono considerati i “padri fondatori”: Arnold Gehlen, Helmuth Plessner e Max Scheler. Pur con tutte le differenze che li contraddistinguono, scorrendo la loro opera si può scorgere un filo rosso che li accomuna: l’immagine dell’uomo come un essere costituito da una dimensione empirica, fisica, corporea ed una psichica, trascendentale, spirituale.
Come Plessner e Scheler, Gehlen sottolinea la particolarià dell’uomo rispetto a tutti gli altri viventi ma, a differenza degli altri due autori, in particolar modo il primo Scheler, il filosofo di Lipsia colloca tale specificità esclusivamente nella dimensione naturale. Nell’“antropologia empirica” gehleniana, infatti, l’uomo è un “progetto particolare della natura”, egli cioè non rappresenta l’ultimo anello di un unico processo evolutivo, ma il risultato di una particolare linea evolutiva, derivante da una biforcazione nel percorso evolutivo delle scimmie antropoidi: «la natura ha destinato all’uomo una posizione particolare […] ha avviato in lui una direzione evolutiva che non preesisteva, che non era ancora mai stata tentata, ha voluto creare un principio di organizzazione nuovo»[2]. Questo progetto particolare della natura è caratterizzabile come un “essere carente”, non dotato, cioè, di organi specializzati per determinate funzioni; essendo pertanto inadatto a vivere in un qualsiasi ambiente naturale, la sua sopravvivenza dipende dalla capacità di crearsi un ambiente socio-culturale, un “mondo artificiale”, adeguato alle proprie esigenze. Ora, benché Gehlen voglia condurre la sua argomentazione esclusivamente all’interno della dimensione naturale, immanente, al punto tale che egli definisce la cultura come «quella parte di natura da lui (l’uomo) dominata e trasformata in un complesso di ausili per la vita»[3], sicché l’uomo appare come «un architetto che edifica la cultura con materiale da costruzione naturale»[4], va notato come egli alluda alla presenza nell’uomo di una dimensione extra-naturale, trascendente la natura, anzi, l’intera critica gehleniana alla standardizzazione dei comportamenti, tipica della tecnologica società di massa in cui la maggior parte degli individui «viene amministrata fin dentro la sua vita interiore»[5], muove proprio dai pericoli che l’autore vede nella manipolazione di tale dimensione, che auspica possa essere autenticamente ripristinata, recuperando quelli che definisce come “ideali ascetici”:

se pensiamo il concetto di personalità cum emphasi, come la produttività veramente ammirevole, non la troviamo oggi tanto nell’isolamento della cultura, nel campo letterario o artistico, quanto piuttosto là dove qualcuno si sforza di far valere le esigenze dello spirito entro il meccanismo stesso dell’apparato […] l’ascesi, semmai comparisse, sarebbe il segnale di una nuova epoca[6].

L’antropologia plessneriana è caratterizzata dall’immagine dell’uomo come struttura unitaria formata dalla mescolanza di una dimensione biologico-naturale con una intellettuale-culturale; fra tutti i viventi, questa proprietà è caratteristica solo dell’uomo cosicché solo egli rappresenta il punto d’incontro fra una dimensione naturale ed una culturale, risultando pertanto dotato di una “posizione eccentrica”:

se la vita dell’animale è centrata, la vita dell’uomo, che pure non può infrangere la centralità, è contemporaneamente fuori dal centro, è eccentrica. Eccentricità è la forma, caratteristica per l’uomo, della sua disposizione frontale nei confronti dell’ambiente[7].

L’eccentricità «definisce ugualmente la sua organizzazione sia nelle zone intellettive che nelle zone vegetative, e in entrambi i casi in modo ugualmente peculiare»[8]. L’uomo plessneriano, quindi, non solo ha un corpo (Körper), ma è un corpo (Leib), ed in lui è presente un costante rapporto dialettico fra la prima cosa, cioè la mera vita biologica, e la seconda, l’autocoscienza della propria esistenza; in tal senso egli è propriamente eccentrico:

come Io, l’uomo non sta più nel qui ed ora ma si pone dietro di esso, in nessun luogo e in nessuno spazio temporale. La perdita dello spazio e del tempo viene vista come perdita del proprio esser esteriore, quindi si deduce che l’uomo non esiste solo per se stesso, bensì “in se stesso”, cioè come fondamento di se stesso […] il vivente è corpo, nel corpo (come vita interiore o psichica) e fuori dal corpo, come punto di vista dal quale esso è entrambi. Un individuo che ha questa triplice caratteristica posizionale si chiama persona. Esso è il soggetto del suo esperire, delle sue percezioni, delle sue azioni e delle sue iniziative[9].

Plessner intende quindi la persona come chi è corpo, è nel corpo ed è fuori dal corpo, insomma, come la più completa realizzazione dell’eccentricità.
Nell’antropologia filosofica scheleriana «la posizione particolare dell’uomo può essere chiarita solo esaminando l’intera struttura del mondo biopsichico»[10]. Come per Gehlen e per Plessner, anche per il fenomenologo personalista infatti, l’uomo risulta essere costituito da una commistione psico-fisica, al punto tale che il suo comportamento

può e anzi deve essere chiarito sempre in duplice maniera, psicologica e fisiologica ad un tempo; per cui è ugualmente errato preferire la spiegazione psicologica a quella fisiologica e viceversa. Il “comportamento” è il campo “intermedio” di osservazione dal quale si deve si partire[11].

Ma poiché una simile definizione di comportamento non distingue tra uomo e animale, Scheler ricorre ad una categoria filosofica che introduce una differenza di “essenza” fra gli stessi, un “nuovo principio” che egli chiama “spirito”, esso

si trova fuori da tutto ciò che noi possiamo definire nel senso più lato come “vita”. Ciò che fa sì che l’uomo sia veramente “uomo”, non è un nuovo stadio della vita – e neppure di una delle sua manifestazioni, la “psiche” –, ma è un principio opposto a ogni forma di vita in generale e anche alla vita dell’uomo: un fatto essenzialmente e autenticamente nuovo che come tale non può essere ricondotto alla “evoluzione naturale” della vita; ma semmai, solo al fondamento delle cose stesse[12].

Come è noto, il problema di Scheler è quello di attribuire all’uomo un fondamento che si situi oltre la dimensione naturale, dove si trova anche l’animale, quindi, ciò che rende la persona tale è per lui un peculiare principio spirituale, una speciale scintilla divina che le consente, unica fra tutte le forma di vita, di poter rifiutare la realtà esistente, trascendendola:

la caratteristica fondamentale di un essere spirituale, qualunque possa essere la sua costituzione psico-fisica, consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico […] Paragonato all’animale che dice sempre di sì alla realtà effettiva, anche quando l’aborrisce e fugge, l’uomo è colui che sa dir di no, l’asceta della vita, l’eterno protestatore contro quanto è solo realtà […] l’uomo è l’eterno “Faust”, la bestia cupidissima rerum novarum, mai paga della realtà circostante, sempre avida di infrangere i limiti del suo essere “ora-qui-così”, sempre desiderosa di trascendere la realtà circostante[13].

L’ultimo Scheler parlerà poi dello spirito dell’uomo come Geist, e della sua irrazionale forza vitale come Drang, sostenendo l’indispensabilità e l’uguale importanza dell’uno nei confronti dell’altro: il Geist è infatti il portatore dei più alti valori umani, ma non ha in se stesso la forza per realizzarli, il Drang è una potenza cieca, un impulso primitivo indifferente al bene e al male e, pertanto, necessitante di essere guidato; sebbene essenzialmente diversi, nell’uomo questi due elementi divengono interdipendenti, perseguendo così «la progressiva ideazione e spiritualizzazione delle forze oscure celate dietro le immagini delle cose e il simultaneo potenziamento vivificatore dello spirito»[14].

Ora, nell’immagine che i tre pensatori menzionati danno dell’uomo, è riscontrabile una fondamentale possibilità ed una fondamentale ambiguità.
La possibilità è quella che l’uomo ha, unico fra tutti i viventi, di poter dire di no alla natura, il che indica il poterla trascendere ma non certo necessariamente l’annichilirla, sebbene tale pericolo sia sempre presente nel destino dell’uomo, come ricorda Martin Heidegger riprendendo il Coro dell’Antigone[15].
L’ambiguità, che Gehlen e Plessner individuano nella commistione nell’uomo fra la dimensione fisiologica e quella intellettuale, mentre Scheler rinviene fra il livello della realtà concreta, in cui convivono bios e psiche, e quello trascendente, di cui per lui sarebbe testimonianza lo spirito, risiede nella presenza, nell’uomo, di due diverse dimensioni che lo costituiscono, originando così un essere ambivalente, formato dall’interdipendenza di due elementi che, comunque li si voglia chiamare e definire, risultano allo stesso tempo profondamente diversi e profondamente legati l’uno all’altro, al punto tale da dare vita ad un che di unitario che non si può semplicisticamente considerare come la sovrapposizione o la somma di due diversi fattori, ma la generazione di qualcosa di ulteriore, di essenzialmente altro[16].

[1] A questo proposito è interessante notare come la nota affermazione foucaltiana secondo cui «l’uomo non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice piega nel nostro sapere, e che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma […] un allotropo empirico-trascendentale che è stato chiamato uomo» (M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1998, pp. 13 e 343), non sia in contraddizione con quanto appena considerato. Foucault infatti si riferisce al fatto che la nostra autocomprensione, come qualsiasi altra forma di conoscenza, è storica e pertanto mutevole; tuttavia, questo non nega che vi possa essere un nucleo di resilienza all’interno di questa storicità: quello che varia è il nostro rapporto con la resilienza, non la resilienza stessa (il cambiamento di una Weltanschauung non cambia le proprietà di un albero, ma cambia il nostro rapporto con esso). Per tal via, si pongono allora due dinamiche essenziali che dettano i mutamenti nella storia e della storia. La prima: l’interpretazione di un fenomeno, delle sue proprietà, è sempre soggiacente alla Weltanschauung del momento, e alla contingenza dell’interpretante. La seconda: gli eventuali mutamenti dello stesso nucleo di resilienza di un ente. Sulla nuova idea di uomo che si sta oggi sempre più diffondendo (e che a partire dalla prima dinamica qui accennata sta producendo effetti sempre più vistosi sulla seconda) cfr. A. Nesi, Neuro-mania. Spunti di riflessione circa l’ipotesi dell'emergenza di una funzione-NEURO (recensione di P. Legrenzi, C. Umiltà, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, Bologna 2009), in «materiali foucaultiani», non datato.
[2] A. Gehlen, L’uomo, Feltrinelli, Milano 1983, p. 43. Sull’antropologia filosofica gehleniana cfr. M. T. Pansera, L’uomo progetto della natura, Studium, Roma 1991, Id. (a cura di), Il paradigma antropologico di Arnold Gehlen, Mimesis, Milano 2005 e Id., Natura e cultura in Arnold Gehlen, in «B@belonline/print», n. 5, 2008.
[3] A. Gehlen, L’uomo, cit., pp. 64-65, parentesi mia. «Non ci si deve lasciar indurre alla supposizione che l’uomo sia solo gradualmente diverso dall’animale, oppure a definirlo in base al solo “spirito”, e dunque, per lo più, nel senso di una caratteristica essenziale concepita in opposizione alla natura. L’antropologia conquista fondamentalmente il campo suo proprio soltanto se si lascia alle spalle siffatti pregiudizi; essa deve tener fermo a una legge strutturale particolare, la quale è la medesima in tutte le peculiari caratteristiche umane, e va compresa dal progetto posto in essere dalla natura di un essere che agisce» (ivi, p. 55). Da queste premesse muove il discorso gehleniano sulla tecnica che, con una triplice compensazione delle carenze organiche umane (sostituzione degli organi mancanti, potenziamento di quelli esistenti, alleggerimento della fatica dell’organismo) rappresenta un qualcosa che non solo non ha un suo corrispettivo in natura, ma che si pone addirittura come un’anomalia rispetto ad essa. Il trapianto di forme di pensiero sviluppatesi nella tecnica in ambienti non tecnici dà poi origine ad un disorientamento sociale che Gehlen definisce come “schematizzazione dei comportamenti” e che imputa al trovarci in un’epoca di transizione in cerca di un nuovo equilibrio tra scienza, tecnica e industria; su questo cfr. F. Sollazzo, Il ruolo della tecnica nell’antropologia gehleniana, in M. T. Pansera (a cura di), Il paradigma antropologico di Arnold Gehlen, cit.
[4] A. Gehlen, L’immagine dell’uomo nell’antropologia moderna, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli 1990, p. 20.
[5] Id., L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma 2003, p. 146.
[6] Ivi, pp. 148 e 80, secondo corsivo mio; sugli ideali ascetici in Gehlen cfr. anche Id., Esperienza ed ethos, in Id., L’uomo nell’era della tecnica, cit. e Id., L’alternativa dell’ascesi, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit.
[7] H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 364. Sull’antropologia filosofica di Plessner cfr. A. Borsari, M. Russo (a cura di), Helmuth Plessner, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, C. Righetti, Nota critica a Helmuth Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo: un’introduzione all’antropologia filosofica, in «Dialeghestai», 2008 e V. Rasini, Filosofia della natura e antropologia nel pensiero di Helmuth Plessner, in «Annali del Dipartimento di Filosofia, Università di Firenze», n. 1, 1995.
[8] J. Habermas, Antropologia, in AA. VV., Filosofia, Feltrinelli, Milano 1996, p. 25.
[9] H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 361-363, corsivo mio; la posizionalità (Positionalität) è il concetto del quale Plessner si serve per descrivere la capacità dell’essere vivente di “porsi” rispetto a se stesso e all’altro da sé, e grazie al quale può attribuire all’uomo il carattere dell’eccentrictità (Excentrizität), dalla quale derivano le “tre leggi antropologiche fondamentali”: quelle dell’“artificialità naturale” (natürliche Kunstlichkeit), dell’“immediatezza mediata” (vermittelte Unmittelbarkeit) e del “luogo utopico” (utopisches Standort).
[10] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 1999, p. 119, corsivo mio. Sull’antropologia filosofica di Scheler cfr. M. T. Pansera, Max Scheler: dall’etica all’antropologia filosofica, in Ibidem e S. Liccioli, Il problema dell’uomo nel pensiero di Max Scheler, in «Humana.Mente», n. 7, 2008.
[11] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 125.
[12] Ivi, p. 143.
[13] Ivi, pp. 144 e 159.
[14] Ivi, p. 172.
[15] «Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia di più inquietante dell’uomo s’aderge», Sofocle, Antigone, vv. 332-333, citato in M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 2007, p. 158. Sulla questione heideggeriana del vivente come ineluttabilmente violento (deinón) e dell’uomo come il più violento tra i viventi (tò deinótaton) in quanto unico vivente a poter rivolgere la violenza verso l’Essere, mi permetto di rinviare a F. Sollazzo, Appendice. Sulla questione della tecnica in M. Heidegger, in Id., Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, Aracne, Roma 2011.
[16] Per un inquadramento generale del pensiero dei tre autori in questione cfr. M. T. Pansera, Antropologia filosofica, Mondadori, Milano 2001. Desidero qui far presente che, sebbene ai fini del presente lavoro abbia ritenuto opportuno muovere dall’immagine dell’uomo che emerge dagli studi dei padri fondatori dell’antropologia filosofica moderna, e che si può foucaultianamente descrivere come una sorta di allotropo empirico-trascendentale (la compresenza nel quale di un che di materiale e di un che di immateriale è intuitivamente certa), non si intende con questo avallare nessuna forma di dualismo, ritenendo invece che la più apprezzabile forma di comprensione dell’uomo, e del mondo, sia una sorta di “fenomenologia olistica”, in grado di rendere conto, senza ricorrere a fratture, della varietà dei fenomeni contemplabili. Per una ricostruzione del percorso storico di autocomprensione dell’uomo cfr. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2002, spec. le prime due parti Il corpo in Occidente: l’equivalenza e Fenomenologia del corpo: l’ingenuità. In questa prospettiva, risulta inoltre interessante l’analisi della critica wittgensteiniana al dualismo presentata in C. Pastorini, Corpo ed etica nel secondo Wittgenstein: una proposta teorica, in «aut aut», n. 345, 2010.

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