martedì 27 dicembre 2011

"Manto di vita"

di Pietro Pancamo (pipancam@tin.it)

Spiegazione di un giorno

Il giorno che saltella
lungo le impronte delle mie scarpe;
il giorno che saluta frantumato,
quasi appostato
fra le dita.
Ogni minuto è fluido di rumori:
sbattono le ali
contro pannelli d’aria. L’impatto
vibra di scherno:
è un lazzo di sdegno
voluto dalla mia notte.

---

L’ironia

Indosso la magrezza
con la disinvoltura
di chi ironizza.

Eh, ironia
con te la disperazione
è filosofia!
Ma senza di te,
ahinoi,
la poesia
è pura (mera) melanconia.

---

Partenza

Ogni saluto è un commento
alla tristezza
di dover partire.

Nel disordine di un abbraccio
escogitiamo
ricordi improvvisati.

---

Vecchiaia: canto di un barbone errante della discarica

I
Quanta spazzatura
che mi ritrovo addosso
nelle dolci siepi di bosso.
Qui tra le foglie verdi
han fatto una discarica.
L’oblò di lavatrici scoperchiate
è un belvedere
per le formiche nere.
(Provviste nel secchio:
alimenti scompagni
come le scarpe vecchie,
bucate dalla noia dell’usura).
“Alla discaricaaaa!!”,
gridano torme di rifiuti.

II
Caldo e fetore
nei venti acuti
si mescolano a formare
uno smog estivo.
(Infatti se gli uomini
dàn di matto,
la sporcizia dà di puzzo).
Così il rosso del mio sangue,
che ogni mattina si sveglia,
non vuol dire più
rigenerazione
ma soltanto
riciclaggio.

---

A mezzanotte

Ecco i fantasmi di queste labbra
e di quegli uomini all’occhiello dell’amore,
che attraversano le ombre cave dell’aria mansueta
con lo sguardo di chi trova nel buio
un manto di vita.

---

Mentre allaccio il destino

Ho fatto la mia vita con i piedi
senza nemmeno darle
una forma di sandalo
o di mocassino.
Che scemo.
Che cretino!
Dio come piango,
mentre allaccio il destino
qua
in mezzo alle narici,
proprio come un anello al naso.

(Manto di vita, LietoColle)

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mercoledì 21 dicembre 2011

La scoperta del "Trono della Grazia" di Vrancke van der Stockt

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)


L’opera d’arte finisce lì dove iniziano le nostre domande. Ogni buon critico, dilettante o professionista, lo sa: l’opera d’arte senza l’ausilio delle parole dice poco o nulla. Restano solo le immagini e loro, assise nel loro universo, restano mute alle nostre domande. Chi non ha mai desiderato che un quadro o una scultura parlasse, che rispondesse a tutte le nostre domande insolute? Solo la forza della ricerca può compiere questo cammino, beninteso. Tutte le forze argomentative della ragione e dell’intuito dovranno prestarsi a questo compito.
L’analisi è solo un punto di partenza e la critica il processo che si sviluppa nel dubbio metodico: ciò che conta è un’analisi storica, comparata e scientifica dell’opera.
Tale metodo ha visto impegnati due grandi personalità della città di Caltagirone: il prof. Giacomo Pace e l’architetto Belvedere. Un quadro, anzi, i suoi enigmi hanno permesso di fare incontrare queste due personalità nella comune ricerca di possibili vie di interpretazione ma, soprattutto, di aggiornamento, di svecchiamento, di presa di coscienza dell’antico per scardinarlo nella luce del nuovo e del più vero sentire. Per restituire nuovi dubbi e nuove verità.
L’opera inquisita è la Trinità di Rogier Van der Weyden (1399-1464) della chiesa di S. Giorgio(1). In questa ricerca ha avuto un peso decisivo la "Società calatina di Storia Patria e Cultura" di Caltagirone(2). Il quadro, secondo la consueta didascalia:
“rappresenta il mistero della Trinità sospesa sull'universo. L'opera apparteneva alla nobile famiglia Interlandi di Caltagirone e fu poi donata alla parrocchia di San Giorgio dalla baronessa Agata Interlandi. Si tratta della tavola più preziosa custodita nelle chiese calatine”(3).
I nostri studiosi mettono in discussione fin da principio il titolo. Perché Trinità? E poi chi fu a donarlo? Chi lo portò a Caltagirone? È veramente di Rogier van der Weyden? Queste le domande principali che hanno animato l’interesse dei ricercatori.
Sappiamo che l’opera venne donata dalla baronessa Agata Interlandi della Favarotta nel 1783, la quale ordinò che fosse esposta nella chiesa di S. Giorgio con l’ordine di nobilitarla con cornici, di farla pulire e di dotarla di un cristallo per la pubblica esposizione. I dubbi interessano il titolo,  il motivo iconografico e la sua fortuna, perché in molti altri artisti rinascimentali come Campin(4) (maestro di van der Weyden) e Quentin Metsys notiamo che lo stesso motivo è variamente ripetuto. I personaggi rappresentati sono Dio Padre, Gesù, Lo Spirito Santo, i due Arcangeli Gabriele e Michelangelo (uno con il giglio, l’altro con la spada), la Maddalena Maria e S. Giovanni. Ma arriviamo al punto cruciale. Hulin De Loo fu un esperto critico dell’arte fiamminga e credette che alcune opere di Weyden fossero state confuse con quelle di Vrancke van der Stockt (1420-1495). Quando visitò la Chiesa di S. Giorgio di Caltagirone trovò confermata la sua ipotesi. Il critico Giovanni Carandente nel 1968 pubblica un volume sul Serpotta e la pittura fiamminga del Quattrocento in Sicilia, quotando appieno l’ipotesi di Hulin de Loo ed esaminando le opere di van der Stockt. Conclusione: non può essere di van der Weyden, è sicuramente di van der Stockt. L’aspetto inquietante della vicenda è il seguente: le interpretazioni di Carandente e Hulin de Loo erano bastate a fugare ogni dubbio ma nel loro girovagare silenzioso nella città della ceramica gli studiosi non avevano avuto modo di informare le autorità competenti delle loro mirabili intuizioni. Pertanto oggi tutto il mondo degli studiosi d’arte, fiamminga in particolare, sa che l’opera è sicuramente di Vrancke van der Stockt ma comunemente la si attribuisce ancora a Rogier van der Weyden! A conferma che la paternità dell’opera sia di van der Stocke vi sono anche altri importanti indizi. Ad esempio, il dipinto misura 68,1 x 99,7 cm. Un’opera piccola tutto sommato, ma se verifichiamo il loro rapporto vediamo che si basa su un numero: 1,618, il famoso numero aureo. Questo è un indizio chiarissimo: l’opera è strutturata secondo principi e figure geometrici, quindi porta avanti un’idea di perfezione e simmetria che non era data prima di van der Stockt.
Questo e altro ancora nel lavoro pubblicato dal professore Pace e l’architetto Belvedere. Attraverso un’interessante indagine storica (che passerà dal nome della famiglia Interlandi alla famiglia Santapau di Licodia) fino alla ricostruzione microanalitica del quadro (ricercando le più intime contraddizioni e somiglianze con altre opere), i nostri critici sono riusciti non solo a presentare l’opera sotto un aspetto inedito ma a porre continui interrogativi, lasciando in sospeso tutte le certezze, al vaglio della critica.
La ricerca della verità non è mai compiuta ma è sempre approssimativa e sfuggente. Ma più che angosciarci dovremmo rallegrarci di tutto ciò, perché proprio questa imperfezione è garanzia di salvezza. La ricerca è solo un punto fermo di una lunga catena che ancora dovrà e potrà continuare con l’ausilio, il tempo, la voglia, la passione di chi indaga gli angoli bui di tutte le domande che ogni quadro ci dà. 

1) Oggi l’opera è stata traslata nel Museo Diocesano di Caltagirone.
2) Il prof. Pace e l’architetto Belvedere sono infatti due dirigenti della stessa.
3) Vedi comunicato stampa del Comune di Caltagirone del giornalista Messineo in data 26 Ottobre 2011.
4) Vedi Throne of Grace, from Flemalle Altarpiece, 1430-4, 15c N.Renaissance.

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venerdì 16 dicembre 2011

La voce della natura

di Chiara Taormina (chiara.taormina@libero.it)

E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri, e non pensano a sé stessi. 

Sant'Agostino

Il mare blu sembrava più vasto, venato di sottili sfumature lunari che si specchiavano sul volto sbiadito della notte. Le onde rumoreggiavano nelle quiete e nell'oscurità impenetrabile si sentiva solo una eco che rimbombava in spirali di speranza: era la voce dell'immensità. 

Una tavola di legno fradicio, corrotta dalla salsedine, era l'unico appiglio per il corpo sfinito. Argor Mavigar, vecchio stimato lupo di mare, ormai era uno dei tanti e sfortunati naufraghi, in balia dell'impeto delle forti correnti. 

A tratti, il silenzio ingoiava il respiro delle onde che poi si innalzavano di nuovo minacciose, come creste dalle orribili sembianze, sul capo indifeso del superstite. Erano fugaci attimi di calma apparente. Pochi secondi e di nuovo si scatenava il rimbombo della tempesta. 

Alle prime luci dell'alba, il mare tornò a placarsi, rendendo la vista dell'orizzonte un disteso miraggio verso la possibile salvezza. Argor rinvenne una piccola bottiglia che galleggiava accanto a lui. L'afferrò con forza, anche se nelle braccia era rimasto solo un debole barlume di vigore e, dopo avere tolto il sigillo, fece scivolare sulla mano bagnata e piagata il foglio ingiallito dal tempo. 

Dopo averlo srotolato lesse: 

«Sei solo in mezzo all'oceano, hai solo una possibilità. Nuota innanzi a te e troverai la risposta: la verità.» 

Argor si sentì spaesato, non sapeva cosa significasse il misterioso messaggio. Decise di andare verso quella meta, verso la risposta, la verità. 

Abbandonò la tavola e usò le ultime forze per annaspare fino alla successiva bottiglia. 

La trovò a breve distanza e senza difficoltà. 

Anche stavolta l'aprì e con vorace curiosità lesse: 

«Sei sempre solo e innanzi a te c'è la vastità del mare. Io sono qui per dirti che non esiste più alcun lembo di terra ove approdare. Il mondo è stato sommerso per sempre. Quale sarà il tuo destino? Cosa farai?» 

Argor rise di cuore: pensò ad uno scherzo di qualche sciocco. Tornò a ripescare la tavola a cui aggrapparsi e su di essa trovò una strana scritta: 

“SVEGLIATI”. 

In quell'istante il mare lo attirò verso il fondo, senza pietà lo inglobò nella sue maglie di gelida fine. 

Argor Mavigar aprì gli occhi, forse per l'ultima volta, in mezzo al buio di quella eterna prigione. Sentì il rumore del suo respiro crescere dentro la nebbia degli ultimi attimi. Fu colto da uno scatto di puro terrore. Con un tonfo, cadde dal letto in una fredda notte invernale: era stato solo un incubo. 

Andò in cucina a bere un sorso d'acqua: erano le tre del mattino. 

Sul tavolo, trovò una bottiglia che di sicuro non gli apparteneva. “Cosa mai sta accadendo” si chiese tra sé. 

La prese, l'aprì e lesse il messaggio che era al suo interno: 

«Sei solo in mezzo all'immensità della terra. Il mare è scomparso, non potrai mai più solcarne le vie.» 

Argor, preso dal panico, andò alla finestra. Dalla cima della collina di casa sua si vedeva l'oceano: il buio totale copriva ogni scenario. 

Aprì la porta e con il foglio ancora tra le mani corse verso la spiaggia. Tra le fronde dei pochi alberi che si ammassavano nei pressi della sua dimora, poteva ascoltare solo il suono dimesso dei battiti del cuore. 

Mise piede sulla sabbia: il mare era davvero scomparso. 

All'orizzonte si vedeva solo una lingua di terra infinita, ingentilita nella forma dalle carezze delle prime luci solari. 

Al suolo campeggiava una scritta: 

“SVEGLIATI”. 

Argor Mavigar si destò all'alba, preso dal terrore. Aveva persino paura a guardare oltre il davanzale delle imposte. Capì che la sua anima era sospesa a metà tra l'amore per il mare e la terra. Non avrebbe mai voluto assistere alla distruzione delle due parti vitali del cuore umano. 

La solitudine non lo spaventava. Del resto l'uomo lo aveva sempre escluso dai salotti borghesi delle lussuose case senza sostanza. 

Lui, invece, faceva parte dell'essenza vera del creato, fatta di sassi e gocce di acqua, di tempeste e quiete. Adesso quella voce lo stava chiamando. In pochi potevano sentirla. 

Erano i suoni che armonizzavano la coscienza, che donavano all'essere umano la dignità di creatura vivente.

Terra e mare, le due parti del mondo, in fondo allo spirito della natura. E Argor sapeva che l'avanzamento della civiltà stava per dissolverle nella dimenticanza dell'avidità e del capitalismo. Per sempre...

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lunedì 12 dicembre 2011

Caffè Filosofico

Università degli Studi Roma Tre – Dipartimento di Filosofia
Società Filosofica Romana – Sezione della Società Filosofica Italiana

Caffè Filosofico
Elio Matassi, Maria Teresa Pansera, Francesca Gambetti
discutono di etica, politica ed economia
in occasione della pubblicazione del volume di

Federico Sollazzo

Giovedì 15 dicembre 2011 ore 16,30
Caffè della Limonaia di Villa Torlonia, Via Spallanzani 1, Roma

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lunedì 5 dicembre 2011

Le teorie sulla globalizzazione

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Un imperdibile saggio di Luke Martell: segna una svolta negli studi su questo tema

Da molto tempo si avvertiva l’esigenza di uno studio che facesse luce sulla globalizzazione e la mitologia che ne è seguita sin dalla comparsa di tale categoria interpretativa nei primi anni ’80 del secolo scorso. Finalmente questo studio è arrivato. Era ora! Davvero non se ne poteva più di leggere e ascoltare tanta approssimazione su un fenomeno che riguarda la vita di tutti gli abitanti del pianeta. E così, ad un anno dalla sua edizione inglese, Einaudi ha appena pubblicato un lavoro di Luke Martell, Sociologia della globalizzazione, 404 pagg., 26,00 euro. Si tratta di un’opera che segna una svolta negli studi su questo tema.
Pur avendo un taglio accademico il volume è scritto con un linguaggio facilmente comprensibile e per di più ogni capitolo può essere letto come uno studio a sé stante. Sociologia della globalizzazione affronta gran parte dei temi sulle trasformazioni del mondo contemporaneo dibattuti negli ultimi trent’anni: dalle metamorfosi culturali all’impatto sociale della tecno-scienza; dalle nuove disuguaglianze alle migrazioni; dall’economia finanziaria al nuovo ruolo dello Stato; dai movimenti per una giustizia globale al declino dell’impero americano; dalla formazione di una coscienza globale alla guerra.
E’ necessario aggiungere che il lavoro di Martell costituisce un’esauriente rassegna delle teorie sulla globalizzazione dagli anni ’80 ad oggi. Perciò il volume possiede anche un valore per così dire enciclopedico. Il ché non guasta. Ma è soprattutto la metodologia adottata a fare di quest’opera un punto di riferimento per gli anni a venire. In poche parole, Martell restituisce alla sociologia la sua funzione originaria: indagare la realtà analizzando la coerenza teorica delle sue interpretazioni sottoponendole a verifica empirica. Funzione largamente smarrita proprio da numerosi sociologi che si sono occupati della globalizzazione (per non parlare della vulgata giornalistica che da tempo costituisce ormai un vero e proprio ostacolo alla comprensione del fenomeno).
Sembrerà sconcertante ma il sociologo inglese si limita semplicemente a fare il proprio mestiere: sottoporre al confronto con i fatti le diverse teorie della globalizzazione applicate alle tematiche sopra indicate (economia, immigrazione, ecc.). Ne viene fuori un quadro non così inclusivo come appare a prima vista. Un quadro per nulla semplice e ancor meno coerente rispetto a quello che la maggioranza di noi ha in testa. A nostra discolpa va detto che l’informazione mainstream ha fissato nell’opinione pubblica mondiale un’idea radicale della globalizzazione. Idea ferma alla prima ondata teorica degli anni ‘80 e che da lì non si è più mossa mentre il dibattito è andato molto, molto più avanti. Tale ondata va sotto il nome di globalismo e a suo tempo ha fornito alcuni concetti-chiave per interpretare la globalizzazione: un fenomeno mondiale ineluttabile secondo il quale le economie nazionali hanno perso di importanza, gli Stati cedono progressivamente terreno, le culture si vanno omologando e ibridizzando. Negli anni ’90 a mettere in discussione l’omogeneità e la generalità di simili processi è proprio la seconda ondata dei teorici della globalizzazione: gli scettici. I quali ritengono che le identità nazionali si evolvono ma non si dissolvono, mentre la rinascita dei nazionalismi è di per sé un’evidenza che confuta le scorciatoie sull’estinzione dello Stato. Insomma, la globalizzazione non si diffonde in modo uniforme e provoca risposte differenti. Agli scettici seguono i post-scettici o trasformazionalisti (chiamati così perché ritengono che la globalizzazione comporti la prosecuzione e la trasformazione delle strutture esistenti all’interno dei singoli Paesi). Per i post-scettici la globalizzazione è un fenomeno nuovo ma non senza precedenti. L’ultima ondata teorica è costituita dalla prospettiva ideativa. Secondo questa visione l’elemento cruciale non è ciò che accade nel mondo ma la globalizzazione in quanto discorso. Insomma ciò che pensiamo della globalizzazione è più significativo della globalizzazione stessa: se pensiamo di vivere in un mondo globalizzato ci comportiamo come se lo fosse realmente (anche se non lo è).  
Dunque il quadro ricostruito da Martell indica chiaramente che tra gli addetti ai lavori non esiste una sola teoria della globalizzazione ma addirittura quattro correnti di pensiero che messe a confronto presentano diverse contraddizioni interne e su punti cruciali sono in netto disaccordo. Ma non sono solo i sociologi ad accapigliarsi. Anche tra gli storici c’è profonda discordia sull’origine della globalizzazione. Si pensi solo allo studio di Hirst e Thompson, i quali affermano che tra il 1870 e il 1914 l’economia era più internazionalizzata di quella attuale.
Se da un lato questo ginepraio di tesi spiega perché la stampa è ancora oggi bloccata alla spiegazione più facile (ma largamente superata), dall’altro, la ridda di opinioni non esime dalla ricerca di una definizione universalmente accettata. E allora per Martell un fenomeno è globale quando presenta tre caratteristiche: regolarità, continuità nel tempo, interdipendenza. Tuttavia, analizzando dimensioni  quali la cultura, l’economia, la politica ci si rende conto che è molto difficile parlare di globalizzazione. Sul piano economico ad esempio l’Asia si arricchisce mentre l’Africa impoverisce. Il che significa ché le distanze sociali aumentano e l’interdipendenza diminuisce a favore degli Stati più forti venendo così meno il presupposto fondamentale della globalizzazione: l’integrazione. Altro esempio: la Coca-Cola. Per Martell questo mito del consumismo è senz’altro un prodotto globale, ma ha a che fare più con l’internazionalizzazione che con la globalizzazione perché la casa-madre non ha affatto un’identità sovranazionale ma marcatamente nazionale (quella USA). E questo discorso vale per quasi tutte le multinazionali. Le quali appartengono ai Paesi ricchi del pianeta determinando così un’asimmetria inconciliabile con le tesi più diffuse sulla globalizzazione. Un ultimo esempio: il turismo. E’ sufficiente dare un’occhiata alle statistiche per rendersi conto che la circolazione delle persone non è un fenomeno regolare: circa l’80% del movimento turistico internazionale si svolge all’interno di Paesi europei  e nord-americani e solo il 20% in altre regioni. Dunque il carattere globale del turismo è limitato perché non ha apporti da tutto il mondo ma solo da alcune aree.
E’ chiara a questo punto la direzione che prende la riflessione di Martell: la globalizzazione è osservata attraverso le prospettive più classiche della sociologia quali il potere, la disuguaglianza, il conflitto. Tale approccio, accantonato da troppi sociologi, si spiega per due motivi: 1) la sociologia non è scienza se non esercita una funzione critica nei confronti delle idee di senso comune – e la globalizzazione è una delle più divulgate idee di senso comune; 2) la globalizzazione è incomprensibile se ci si limita ad analizzarla solo sul piano culturale, se ci si concentra principalmente sulle migrazioni, se la si presenta come pura esaltazione del nuovo rispetto al vecchio. Filtrate dal setaccio di Martell delle teorie sulla globalizzazione resta molto poco. E due dei risultati più interessanti del suo libro consistono nell’aver individuato una globalizzazione per pochi privilegiati e nell’essere questi stessi privilegiati un ostacolo alla globalizzazione intesa come integrazione. Martell infatti mostra che le nazioni ricche si aprono al commercio mondiale solo quando possono trarne vantaggio per le proprie industrie mentre lo ostacolano quando non riescono a trarne benefici. Ed è un dato incontrovertibile che il 60% della popolazione mondiale viva con un reddito che oscilla tra uno e due dollari al giorno. Il ché per molti significa la fame. Insomma la globalizzazione è più un’ideologia che una realtà.

VIAPO», 01/10/2011)

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domenica 27 novembre 2011

Anthropology and Human Rights

by Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

The existence of one basic anthropological constitution is not incompatible with the phenomenon, now more than ever visible, of the cultural pluralism (in front of which the ethical pluralism appears to be nothing more than a degeneration); but how reconcile the existence of one essential anthropological constitution with the presence of the cultural pluralism? There is, in other words, an universal ethical substratum that acts as a bridge between these two poles?
If we want prevent the merely commercial exploitation of the diversity and avoid the clash of cultures that occurs when diversity feeds fear and rejection, we must to assign a positive value to [...] influences and [...] meetings, helping each of us to broaden own experience, thus making us more creative in our culture [...] (for this) cosmopolitanism, understood realistically, means [...] to accept others as different and equal. This will reveal at the same time the falsity of the alternative between different hierarchies and universal equality. And so are exceeded two positions, the racism and the apodictic universalism (A. Touraine, it. tr. 2002, p. 197, my en. tr., and after my brackets, U. Beck, it. tr. 2005, p. 82, my en. tr.)

Is thus evident that the irreducibility of one person to another, of one culture to another, does not involves the impossibility of the comparison, on the contrary, it would be possible thanks to a sort of "universalism of difference" and "disjunctive synthesis", in which the irreducibilty of a singularity to another is the trait d'union among themselves; this can all be done on the ground of a universal Ethics, anthropologically founded.

The civilized world can not be other than the global coalition of cultures, each of which preserves its originality differences do not identify with being, but they always distinguish him. And only thus the differences produce the phenomenon of becoming of life [...] Only in this way, only saying this passage, we can do detonate the device of metaphysics, that is one with the device of power: the idea of One as unit of differences (C. Lévi-Strauss, it. tr. 1967, p. 139, my en. tr., and, G. Marramao, 2003, p. 215, my en. tr.) 

But how these arguments can find concrete application in today's society? 
The justice (which in a theoretical perspective can be defined "justness") is certainly the central question around which revolves the Ethics, we could say that the justice represents the "engine" of the Ethics, to answer to which the Ethics borns; therefore cultures can be considered as different solutions to the same question.
In order to implement the justice, has given rise to its institutionalization: the right, within which human rights are placed, therefore, although they occur in institutionalized forms, also arise from an ethical question. In this scenario, politics can be the "filter" through which happens the transition from the dimension of ethical values to that of practical and institutional forms, that are infrastructures needed to gain and maintain power, which in turn is the primary tool for the realization/institutionalization of values. Thus, the development of conceptual and practical status of the "Justness", Justice, Law and Human Rights, stands as one of the primary and essential tasks that every human association must meet, without ever having to exhaust the claim because, although the clarification of these questions is essential because it offers a peaceful human coexistence (since those concepts are universal and legitimate custodians of human needs, arising from the basic anthropological constitution), should not be forgotten how their specific definition is constantly precarious, because "historically" determined.
Now, with this reasoning, it is perhaps worth repeating, I don’t want to deny the existence of universal human needs (on the contrary, they exist and are anthropologically based), but, I would like to say that through these universal needs, arise specials arrangements: the Human Rights, "the protection of these rights [...] means the fulfillment of basic needs" (G. Harrison, it. tr. 2001, p. 165, my en. tr.), and the protection which should manifest itself today is no more through their simple development and/or review (processes, these, already widely available), but through their application, indeed

The basic problem relating to Human Rights today is not so much to justify them, but rather to protect them. It is not a philosophical problem, but political: it is not important to know which and how these rights are, what’s their nature and their principles, whether are natural or historical rights, absolute or relative, but what is the way to ensure them, to prevent that, despite the solemn declarations are continually violated (N. Bobbio, 2006, p. 16, my en. tr.)

So, if is true that today the crucial issue of Human Rights is not their philosophical foundation, but their political application, is equally true that this question currently occurs in a different way than in the Twentieth century, in which the violation of Human Rights was tied hand in glove with the category of citizenship and the phenomenon of Statelessness (as Hannah Arendt has amply shown). Indeed, binding Human Rights to the category of citizenship, they are to coincide with the rights bestowed by the State, as civil rights (that care the existence of each citizen), social rights (that care the existence of ethnic and cultural groups and minorities) and political rights (that care the freedom of action for individuals and groups), so they seems to belong to a State and not to men, now instead, Human Rights are unrelated at the membership to a State, allowing them to be recognized without a national citizenship as well (in the name of what, increasingly, global citizenship is called, like if without an official-burocratic status of citizen could not be granted rights), in other words, they are considered today, rights "to humans without further specification, without borders or boundaries, without more social definitions" (A. Touraine, it. tr. 1993, p. 376, my en. tr.). But then, if is not the category of deprivation of citizenship (with the related phenomenon of Statelessness) the carrier through which is perpetrate the violation of Human Rights today, it remains to think that the reason of this breach is the lack of understanding that

There is a relationship between Human Rights and human needs [...] (that) The idea of "basic needs" is built around this: on the other side of their satisfaction there is suffering […] "have a right" means, first, that there is an aspect of the human being that must somehow be respected and protected in the conduct of social and political life (J. Galtung, it. tr. 1998, p. 290, my en. tr., and after my brackets, F. Viola, 2000, p. 97, my en. tr.)

In conclusion, the purpose of this short paper was not only the intent to draw the reader's attention on the most urgent ethical and political issues, which require a pre-clarification for to reach their solution, but rather the desire to frame these issues through a particular perspective, that is the essential anthropological structure, which has in its very elementary and simplicity, its universality, and that needs of context in context (and even of man in man), to find specific forms of application.

For further details click here / or here

Bibliography

-) U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005.

-) N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 2006.
-) J. Galtung, Lo stato nazionale e la cittadinanza: e la cittadinanza globale?, in AA. VV., Educare alla pace, Esperia, Milano 1998.
-) G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi, Roma 2001.
-) C. Lévi-Strauss, Razza e Storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967.
-) G. Marramao, Passaggio a Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
-) A. Touraine, Critica della modernità, il Saggiatore, Milano 1993.
-) A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, il Saggiatore, Milano 2002.
-) F. Viola, Il carattere morale della pratica sociale dei diritti, in Etica e metaetica dei diritti umani, Giappichelli, Torino 2000.

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domenica 20 novembre 2011

"L'arte è oro di profeta"

di Chiara Taormina (chiara.taormina@libero.it)

Aria in polvere
è palude nel cuore
Di vizi è nutrita
la paura
che pasce mistura
di strega
Colore di rogo
ha crepitio
di insonnia
dolore che cresce
in grembo

Lembi di speranza
sono fantasmi al tramonto
Antichi ruderi che
sviolinano note
alla città del passato
I vecchi ricordano
specchiandosi
in cenci di brodaglia
Pensano ai guardiani
delle porte
Volti di pietra
che origliano
il futuro

Dannato ha
essenza di zolfo
stilla sentimenti
di vapore
alla soglia del creato
Merce per il sovrano
del tempo
scotta sui vassoi
eburnei
L’arte è oro
di profeta
anima che freme
oltre il limitar
del mondo

Rotolano lacrime
sul viso del passato
guance arse dal fuoco
della prigionia
Il buio e la paura
attendono sulla
soglia del mattino
sono ricordi
della donna di ieri

Parlo di neve
dove la casa
ha splendore di cristallo
Il trillo della rugiada
picchia alla porta
Il cielo ha ali d’alba
sul soffitto dei sogni
Parlo di te
che vivi dentro l’anima
nel cuore
nell’eternità
Per sempre artefice
del più dolce
dei sospiri

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domenica 13 novembre 2011

"La mia quiete"

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

La mia quiete
era un’alba di luci smerigliate
in una stanza piena di sussurri.
Se ricordi le mie mani
cercavano
il tuo corpo disteso
nell’argento del primo mattino,
il chiaroscuro della tua anima in festa
e le mie mani vibravano nelle tue.
Ma tra lenzuola assi rotte e sudore
la mia testa di febbri scucite
le tue mani a cercarmi
nell’ultimo delirio
ora qui, a saziarci, le briciole del nostro amore.

----------

Ombre della sera,
sembrate così dure
nel colore che vi carica.
La mia anima se si muove
si ritira con le sue ali di fuoco
in un cerchio di puro dolore.
Voi celate tutto nel vostro duro schermo
ma le parole
loro
trafiggono questo limite
e si consumano nel silenzio.
Tenetele in voi,
ombre,
serbatele per lei
e ditele che la mia mano,
nel sonno,
si muove oltre l'orizzonte
dove so che lei vive
e furoreggia nella vita,
solo per toccarle il viso
e dolermi per gli occhi suoi
lontani.

----------

Sono immerso nel buio della sera.
Un silenzio che taglia il fiato e aguzza i sensi.
Io ti sento
ed è un calice che vuoto
mentre la tua immagine
si staglia fresca nella mente
e mi prende un sorriso,
l'unico atto di gioia nel ventre del buio,
l'unico lampo di luce
che riverbera forte e sicuro
come la notte che attende.

----------

Ho questo tramonto che mi segna
come la punta di una lama sul limite del cuore.
Te sei al di là dell'orizzonte
e forse non basta la mia anima che si espande,
non so se cogli l'ardire.
Ma te riposa, medita sugli istanti che cogliemmo insieme.
Possano germinare tra i tuoi pensieri
come semi di luce e proteggerti.
Hai questo limitare del mio cuore per te
e il cielo se trasmette energia è qui che mi carica del tuo ricordo
e nulla, dico nulla, è pari alla nostalgia di te.

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La fonte della pienezza
sgorga
da questo corpo di febbri
e cerchi di fiamma
con il grido strozzato in gola
per la gioia della tua visione,
anima sacra di pelle umana
verso quale vortice
incedi
con passi delicati
e tonfi da palcoscenico
perché, sai, la tua anima è pesante.

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La mia quiete
è questo protendere
la mani chiuse a spine
verso un cielo di pura grazia
dove la luce rifulge favolosa
e te risiedi in un alveo di chiara bellezza.
E gettare
il mio corpo
nel tuo
per l'ultimo grido
che squarci le pareti dell'aria,
le carni che vibrano impazzite:
così, la vita, ci tiene per mano.

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Latebre della sera
scolorite
con il rosa del tramonto
quale pena di chiodi mi urge gridarvi.
Potessi chiuderle le labbra
con il fiore di un bacio
e cingerla tra me,
vaso che accresce l'oro
in una preghiera di latebre.

----------

Fermo con le mani nelle tempie
nel buio degli occhi chiusi
la tua voce si dirama
nel cerchio dei ricordi.
Ed è nel palco
dove celebri e consumi la tua anima
che ti scorgo.
Mentre ti liberi del fuoco
con una scrollata
E danzi in punta di vita
carezzando il baratro.

----------

La calura si attenua. Il
giogo si allenta in una
serenità ritrovata. Come
amo questo silenzio in
cui muori con
dolcezza. Ti ghermirei
nel buio del tuo animo
e, nel fuoco, le carni che
bollono, tra caldo sudore
e sfiati cogliere nelle
mani liquefatti umori la
certezza del tuo sonno
e resistere alla veglia.

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martedì 8 novembre 2011

Federico Sollazzo, "Totalitarismo, democrazia, etica pubblica"

di Giancarlo Calciolari (calciolari@transfinito.eu)


Il libro di Federico Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, è un’opera in viaggio, intellettuale e scientifico, che non accetta la sedimentazione dei saperi e apre piste di ricerca per l’era intellettuale e non per l’epoca che predilige la chiusura.

Già nel titolo del libro del filosofo Federico Sollazzo ci sono quattro libri che riguardano il totalitarismo, la democrazia, l’etica, il pubblico. Nel sottotitolo ci sono suddivisioni universitarie della filosofia, che in termini cantoriani dovrebbero dirsi degli infiniti di potenza inferiore. Solo la filosofia politica è un settore talmente vasto che varrebbe un’enciclopedia, senza entrare nei paradossi delle discipline universitarie che devono incasellare l’inclassificabile, come per esempio Niccolò Machiavelli, i cui scritti non hanno nulla di filosofico: non sono scritti di filosofia politica. 
Federico Sollazzo in questo suo libro di filosofia scritto per l’università privilegia appunto la trama rispetto alla ricerca, nel senso che offre una sua intensa e interessante mappa filosofica della modernità in cui ciascun lettore, e non solo studente universitario di filosofia, trova elementi per le sue piste di ricerca. 
Chiaramente ciascun autore citato e sopra tutto gli autori ai quali ha dedicato più pagine, da Hannah Arendt a Herbert Marcuse, da Emmanuel Lévinas a Paul Ricœur, da Platone a Jacques Derrida, meriterebbe uno scritto per restituirne il testo in un’altra lettura. Solo gli ultimi due seminari di Jacques Derrida su La bête et le solverai, citati da Sollazzo, richiederebbero una lettura che nessuno ancora ha dato. 


Hiko Yoshitaka, "Elogio del due", 2011, cifratipo, olio su carta

Che cosa fa Federico Sollazzo in questa opera? Un’operazione essenziale: pone un altro accento e un altro tono sulle parole. Totalitarismo, democrazia, etica non sono neanche più oggi dei significanti istituzionali, sociali, connotativi, ormai piatti, atonali, privi di qualsiasi accento, ossia di qualsiasi curiosità intellettuale, ma sono diventati dei lemmi del luogo comune. Piano piano, questo è il modo dell’insegnamento sobrio di Federico Sollazzo, più vicino a Burckhardt che a Nietzsche, le parole si rimettono in moto e gli autori citati rispondono alla citazione e vengono messi in questione. 
La narrazione prende la mosse dalla lettura del totalitarismo di Hannah Arendt e da quella di Herbert Marcuse e si conclude sulla questione della tecnica di Martin Heidegger. Senza che sia nominata come tale, anche la lettura di tale questione data da Sollazzo è un’analisi del totalitarismo, in particolare dell’adesione al nazismo di Heidegger. Certamente solo la psicanalisi può dire qualcosa sul come Heidegger abbia preso come Erlebnis i baffetti di Adolf Hitler e solo la ricerca documentale, in particolare delle due conferenze che Heidegger tenne a Roma nel 1936, una vietata agli ebrei, potrà valutare se il presunto disingaggio dopo il rettorato del 1933 sia stato molto più tardivo, se non mai avvenuto. Più interessante è accorgersi che la questione della tecnica è la risposta di Heidegger al totalitarismo, ovvero la sua giustificazione. 
Nell’intervista testamento a "Der Spiegel", Heidegger mette i campi di sterminio e le camere a gas in conto alla tecnica come compimento della metafisica. Si intende la lettura di Jean-Pierre Faye che nota quanto l’abbandono della metafisica da parte di Heidegger sia dovuto al tentativo di svincolarsi dalle obiezioni più anti-intellettuali che gli venivano dagli ideologi del partito nazista, che per altro capivano il suo progetto di influenzare Hitler, come risulta dalle conversazioni obbligatorie con i membri della commissione di denazificazione. 
La tecnica è delegata dagli umani ed è fatta a loro immagine e somiglianza. Chi ha manipolato i forni per il pane per farne dei forni crematori? La tecnica o chi si presume tecnico deresponsabilizzato? 
La mappa e la ricerca. Che la mappa sia in primo piano non toglie nulla alla ricerca: ci sono spunti nel libro Totalitarismo, democrazia, etica pubblica che aprono piste che nessuno ancora esplora. Forse ne nasceranno alcuni libri di Sollazzo meno soggetti alle utili mappe e più inclini all’affondo teorico. 
Prendiamo alcune di queste piste. "Gli assassini non si sono mai percepiti come tali; paradossalmente il più grande assassinio di massa della storia non è stato commesso da assassini, ma da professionisti che hanno svolto egregiamente e diligentemente il proprio dovere "lavorativo"". Anche oggi ci sono guerre definite "giuste" in cui le uccisioni non sono commesse da assassini ma da professionisti della morte legale e qualcuno capisce questo. Ma pressoché nessuno oggi coglie la logica dell’antivita (la mortificazione sino alla morte) nella somministrazione e nell’assunzione di psicofarmaci e talvolta anche nel caso di somafarmaci, come quello contro l’aids. Inoltre la vita è particolarmente difficile nelle istituzioni, nei posti di lavoro e nelle famiglie e quindi anche all’università. Per un errante, errabondo, geniale e eretico Gödel ci sono stuoli di matematici che accettano l’anomia, l’oligomania, il profilo basso, decisamente. 
Interessante l’annotazione di Sollazzo, leggendo il caso Eichmann, che chi esegue gli ordini e chi li progetta siano entrambi meri esecutori di un progetto superione. È la stessa superiorità del Dio di Eichmann. È la presunta stessa superiorità della tecnica. È il predominio del "vitello d’oro". 
Hannah Arendt inviata dal "New Yorker" per seguire il processo di Otto Adolf Eichmann testimonia che il carnefice si definisce un "credente in Dio" che però ha rotto con il cristianesimo, intendendo Dio come un Höherer Sinnesträger, un essere razionale superiore, che alla lettera è un portatore di senso, conferente significato alla vita umana, che altrimenti ne sarebbe priva. Il portatore di senso più elevato, superiore, più alto. In breve il dio maggiore della gnosi. 
Scrive Federico Sollazzo che definire Dio un Höherer Sinnesträger significa inserirlo nella gerarchia militare. In tal senso il dio maggiore e il dio minore della gnosi e delle neognosi sono anche militari. C’è già il Dio degli eserciti nel Vecchio Testamento. Eppure l’imparlabile, l’indicibile, l’innominabile non risiedono nella logica duale, ossia non sono né superiori né inferiori. 
Ognuno è portatore di senso agli ordini del delegato superiore fatto a propria immagine e somiglianza dai deleganti, come già accennato. I risultati sono le liturgie e le cerimonie che sostantificano e mentalizzano la significazione del fallo. 
Leggendo il saggio sull’autorità di Kojève abbiamo annotato come l’Herrschaft, il dominio, la sovranità, la signoria sia per eccellenza fallica. 
Volksgemeinschaft. Comunità del popolo, comunità popolare, unione popolare. Gemeinschaft: comunità, unione, insieme. Prima c’è gemein, grossolano, volgare. Qualità del volgo. Quindi Volksgemein è una ripetizione. Popolo volgare. Volgo volgare. La curiosità leggendo la citazione in tedesco di Federico Sollazzo risiede nello Schaft, mai precisato dai filosofi germanofoni: bastone, asta, manico. La comunità dell’ideologia tedesca è quella eretta sul bastone. È per eccellenza la comunità della significazione del fallo. Rispetto a questa ipotesi chimerica sulla società, che sarebbe il riflesso terrestre di una struttura celeste, il teismo e l’ateismo sono due varianti. Basta vedere la struttura fallica dei regni su base atea. Il matematico ateo dà del tu al Papa quasi a confessare che si tratta della stessa Volksgemeinschaft e non di un’altra comunità non più fondata sullo Schaft
Un altro aspetto della ricerca di Sollazzo è la sua lettura dello storicismo e del suo supporto teologico, quello di Dio come autore della storia. Il Dio eletto, delegato, che poi investe un popolo per elezione e per selezione degli altri. Sollazzo impiega una linguistica ancora da analizzare, che implica la stessa credenza che mette in sospensione. 
Leggendo Popper, Sollazzo annota come "la storia sia il prodotto di determinate istituzioni umane, svincolate da qualsiasi telos, attraverso le quali alcuni uomini detengono il potere". E lo detengono grazie all’ipotesi del telos, anche nel caso dell’ateismo filosofico di Martin Heidegger come in quello del teismo politico di Carl Schmitt. 
Allora "L’idea di una autonomizzazione ed emancipazione delle forze che controllano la società, da una qualsiasi prospettiva teleologica" si inscrive ancora nel fallicismo del controllo. L’autonomizzazione è di un "soggetto", anche nella forma ontologica di un "Dasein". Non si tratta della vita originaria ma della sopravvivenza, del discorso della morte nella sua economia del male, della violenza, della crudeltà. E questo è anche un aspetto dell’impasse (teorizzata come surplace) di Jacques Derrida. 
Occorre, è la nostra ipotesi di lettura, astenersi in modo estremo, che è intellettuale e tranquillo, e sospendere la credenza teista e ateista in ogni suo aspetto, poiché mantenerla è accettare il dominio dell’uomo sull’uomo e tutto ciò che viene chiamato il male, il peccato, il crimine, l’incesto. Anche nei casi più interessanti di ricerca in questa epoca che sono delle anomalie, come Giorgio Agamben in filosofia e Pierre Legendre nel diritto e in psicanalisi: il primo mantiene l’ipotesi del tempo che resta e per vari aspetti non si discosta né da Heidegger né da Schmitt né da Taubes, e il secondo mantiene il principio del padre, il principio totemico, il principio d’autorità, in una lettura freudiana di Freud, che non era freudiano, scostandosi dalla messa in questione di Lacan, per altro suo ex maestro. 
Là dove si constata il narcisismo delle piccole differenze, il due pesi e due misure, nell’università come nelle associazioni psicanalitiche (dove c’è sempre un maestro e una banda di allievi a vita), rimane da leggere l’essenziale dell’ipotesi politico teologica. Per l’aspetto dell’ateismo se n’è accorto Giorgio Agamben che il tempo che resta rimane intatto come struttura fondamentale. Ma il tempo non resta e la struttura è originaria e non fondamentale. 
L’originario è senza origine. E il tempo si avverte come terremoto, in ciascun istante. La sua violenza è impadroneggiabile. Per questo c’è sempre il tempo per leggere, per scrivere, per fare, per restituire l’essenziale del testo che a ciascuno spetta di scrivere, indipendentemente dai risultati personali o sociali. 
Il libro di Federico Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, è un’opera in viaggio, intellettuale e scientifico, che non accetta la sedimentazione dei saperi e apre piste di ricerca per l’era intellettuale e non per l’epoca che predilige la chiusura.

(«Transfinito», 27/06/2011)

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venerdì 28 ottobre 2011

Ungaretti, "Lucca"

 di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre
ci parlava di questi posti.
La mia infanzia ne fu tutta meravigliata.
La città ha un traffico timorato e fanatico.
In queste mura non ci si sta che di passaggio.
Qui la meta è partire.
Mi sono seduto al fresco sulla porta dell'osteria con della gente
che mi parla di California come d'un suo podere.
Mi scopro con terrore nei connotati di queste persone.
Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei morti.
Ho preso anch'io una zappa.
Nelle cosce fumanti della terra mi scopro a ridere.
Addio desideri, nostalgie.
So di passato e d'avvenire quanto un uomo può saperne.
Conosco ormai il mio destino, e la mia origine.
Non mi rimane che rassegnarmi a morire.
Alleverò dunque tranquillamente una prole.
Quando un appetito maligno mi spingeva negli amori mortali, lodavo
la vita.
Ora che considero, anch'io, l'amore come una garanzia della specie,
ho in vista la morte.

La poesia è tratta dal volume Allegria del 1931. Tale raccolta è caratterizzata dalla fede nella capacità evocatrice della parola e dall’istanza biografica. La punteggiatura è rifiutata per dare nuovo risalto alle parole in una autosufficienza espressiva, la metrica risulta scardinata per farsi prosa in un libero fluire dell’anima. 
Le esperienze dei due conflitti mondiali e il loro forte impatto emotivo influirono in modo determinante nell’espressione artistica di Ungaretti. Nelle sue opere trapelano infatti le fragilità dell’uomo stesso che si vede smarrito alla ricerca della propria identità e delle proprie radici. A lui si riconosce inoltre lo sviluppo di un nuovo stile che si realizza nell’immediatezza espositiva, nell’uso di analogie e nella rottura delle regole della metrica tradizionale con l’abbandono della punteggiatura, la parola è un "abisso" dove ricercare se stessi.
Lucca è una poesia di ricapitolazione: il giovanile fermento pare finito, la responsabilità comincia a pesare, ci si avvia alla maturità. Solo ora, appena uscito dalla guerra, il pensiero di Ungaretti va alla morte. Ha più di trent'anni, è spaesato, vede per la prima volta Lucca e scopre le sue radici, lui nomade. In questa poesia riconosce esplicitamente le sue origini lucchesi e rievoca i ricordi personali, le tappe attraversate nello scorrere della sua vita. Il contatto con la violenza della guerra rafforza la tensione del poeta verso l’innocenza, la purezza, l’origine. Questa poesia è appunto il ritrovamento di un momento autentico e perciò puro, innocente, originario. L’immagine della città di Lucca lo pone in una condizione di ancestrale armonia con la realtà circostante e soprattutto con la natura, rievocata attraverso la vividezza degli aggettivi utilizzati.
Ungaretti rievoca la propria infanzia quando dopo cena la madre gli narrava di certi luoghi. La sua infanzia fu colpita da questi racconti. Successivamente il poeta si sofferma sulla città di Lucca tentando di descriverla, di vivere i suoi luoghi, si ferma in una locanda e sta a contatto con la gente, ascolta i discorsi. Si immedesima con l’anima degli abitanti e ciò gli suscita sentimenti profondi, conturbanti, si sente più vicino ai suoi antenati e alle sue origini. Riconosce e ammette le sue origini umili, si rende conto del suo destino e dell’approssimarsi della morte ed è intenzionato ad avere figli. Riflette poi sulle proprie esperienze sentimentali.
Il realismo descrittivo di Ungaretti pregna profondamente questa poesia. Nel testo troviamo insiti rimandi e riferimenti alla città di Lucca. In "in queste mura" il poeta utilizza non a caso il sostantivo "mura" ad indicare la nota origine di Lucca quale città medievale, che conserva tutt’ora le sue cinte murarie. 
"Ho preso anch’io una zappa": il rimando all’arnese agricolo non è casuale, Lucca è una città di agricoltori, e di migranti. 
I versi 12-13 riescono a esprimente la fertilità e la procacità di una terra, quella lucchese, che viene equiparata a una figura di donna. Il ritorno ancestrale alla propria terra e alle proprie origini, vissuto quasi come un ritorno fetale, provoca nel poeta un sentimento di allegria ("e mi scopro a ridere"), parola chiave che intitola la raccolta da cui la poesia è tratta. Alla terra, con le sue "cosce fumanti", il poeta si sente legato quasi come in un idillio amoroso e passionale. Alla luce delle teorie psicoanalitiche elaborate in quegli anni, è possibile leggere in questi versi e in queste parole un riferimento alla sfera sessuale che coinvolge la terra in quanto Madre-Terra. Sappiamo infatti come la figura della madre sia centrale nella poetica di Ungaretti e quindi questa ipotesi potrebbe essere rivelatrice, ancora una volta, dell’attaccamento del poeta alla propria madre.
La città di Lucca è descritta nei versi 4-6. Lucca è caratterizzata dal traffico "timorato" come di chi sta sempre in preda all’ansia e "fanatico", ovvero troppo entusiasta, in continuo fermento. Il poeta avverte infatti come non vi sia neanche il tempo per soffermarsi sulle mura, in una città dove, appunto, la meta è partire, andare sempre. Lucca è una città dove la conformazione urbana mantiene in maniera vivida le proprie origini medievali, quindi suggerisce e facilita il bisogno del poeta di rievocare e percepire le proprie origini. 
"La meta è partire" indica una conoscenza della città, del suo sviluppo e delle sue dinamiche storiche: Lucca è una città in cui fin dal Medioevo gli abitanti erano contadini, spesso costretti a partire per cercare nuove opportunità di sostentamento, dove l’emigrazione risultò decisiva per varie attività quali, ad esempio, il commercio della seta. Tale caratteristica il poeta la sente propria, esclusiva, riconosce che il suo destino ha delle origini profonde insite nella storia di questa città.
Il poeta si sente sgomentato davanti a una verità che gli sembra rivelata nel contatto con gli abitanti e la città di Lucca. Qui riconosce se stesso, le origini del proprio destino di viandante e poeta. Lucca è una città determinante per il poeta, come la chiave che svela tutte le sue domande esistenziali cullate nel corso della sua vita: il rapporto con la madre, il viaggio, la sua personalità accesa e passionale, il rapporto con la terra. L'infanzia del poeta fu "meravigliata" dai racconti materni che, parlando di Lucca, mantennero vivo il legame tra il poeta e la città.
Ungaretti era un poeta molto passionale e in questa poesia medita sul proprio vissuto, sulle proprie esperienze sentimentali traendone un’osservazione. Quando l’amore era vissuto dal poeta solo nella sua sessualità, nella fugacità dei rapporti e del piacere, lodava la vita; ora che sente l’approssimarsi della morte l’amore gli sembra l’unica via per perpetrare la specie umana, unica garanzia affinché il genere umano continui a sopravvivere. Dalle sue esperienze di vita, quindi, ricava una meditazione filosofica. L’amore è l’unico sentimento in grado di sconfiggere la morte, di mantenere la vita.
Ritengo la poesia di Ungaretti estremamente vivida, passionale ma anche attuale. La Lucca degli anni '30 attraversava dinamiche e problematiche ancora oggi presenti in molte aree d’Italia. L’emigrazione forzata, caratteristica del nostro Sud, dei nostri giovani, laureati e non, è uno dei grandi nei della società moderna. Il senso di attaccamento e di appartenenza che il  poeta sente forte dentro sé è lo stesso sentimento di quanti oggi sono costretti ad allontanarsi dalla propria terra. 
Le grandi guerre del Novecento avevano portato ad una decostituzione dell’Io e della propria identità, che il poeta in primis ha vissuto sulla propria pelle, "so di passato e d’avvenire quanto un uomo può saperne". Adesso Ungaretti vuole ricostruite il suo Io: "il sangue dei miei morti" è proprio il bisogno di ricercare la propria autenticità ed identità.  
Lo stato d’animo che si può cogliere nei versi finali è di pace e rassegnazione, serenità e mancanza di turbamento. Ora il poeta ha ricostruito le dinamiche della propria esistenza, conosce la sua origine e il suo destino, l’inizio e la fine, e può abbandonarsi all’idea della morte.
E’ questa una poesia autoriflessiva. E’ il bilancio di una vita, di una dura esistenza. 
Ha amato la vita con le sue passioni e i suoi turbamenti. Ha conosciuto amori mortali dettati da un "appetito maligno". Comprende ora che l’amore è "garanzia della specie", che permette cioè la sopravvivenza dell’essere, ed è quindi pronto a morire.
Il contrasto amore-morte è qui sintomatico dello struggimento interiore del poeta. L’idea dell’amore lo induce inevitabilmente ad un pensiero di morte, di rassegnazione ("alleverò tranquillamente una prole").

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venerdì 21 ottobre 2011

Recensione filosofica: il nuovo libro di Federico Sollazzo

di Maria Giovanna Farina (mg.farina2@alice.it)

Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, con la presentazione di Maria Teresa Pansera edito da Aracne, Roma 2011, è il nuovo libro del filosofo Federico Sollazzo. Scritto per studenti universitari e studiosi, il testo può rivelarsi un utile strumento anche per chi, già avvezzo alla filosofia, voglia approfondire ed ampliare i propri orizzonti sulla questione del totalitarismo, da cui il libro prende vita, per giungere a rintracciare i criteri adatti ad una pacifica convivenza umana. La interdisciplinarietà (si incontra una prospettiva filosofica, ma anche storica, politica, sociale e psicologica), di cui un filosofo dovrebbe essere sempre fautore, rende questo testo uno strumento indispensabile per lo studioso, predispone lo studente ad apprendere lontano da una rigida acquisizione delle conoscenze ed erudisce chi ama la filosofia senza esserne uno specialista. Durante la lettura ho individuato dei capisaldi della filosofia pratica come il conosci te stesso (Gnothi sauton) mutuato da Socrate direttamente dall’oracolo di Delfi che rappresenta una forma di conoscenza indispensabile per la cura di sé, propedeutica all’esercizio di un pensiero critico, come sottolinea l’autore. A proposito di totalitarismo, per bocca di Hannah Arendt, Sollazzo ci fa sapere come ad esempio il funzionario nazista sia un anti-socrate, incapace di pensare e capace solo di obbedire a qualsiasi norma. Il libro indica la via per il superamento delle problematiche socio-politiche e sottolineando la componente biologica ed emozionale dell’essere umano, ci mostra quanto sia necessario comprendere tale sua costituzione peculiare. Il libro è anche una riflessione etica e mostra il suo legame con la filosofia alla ricerca di una eticità condivisibile: almeno il minimo indispensabile in un’epoca ormai dominata dal multiculturalismo e dalla molteplicità dei valori.
In conclusione, la capacità di Federico Sollazzo di "mettere insieme" e di confrontare facendo parlare diversi punti di vista diviene anche un auspicio concretamente realizzabile da chi sa, o spera, di riuscire a fare della condivisione tra differenze un sentiero davvero percorribile.


(«L'accento di Socrate», n. 13, 2011)

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