venerdì 20 dicembre 2013

Quello spettro che s’aggira per l’Europa: il nuovo Fascismo

di Pietro Piro (sekiso@libero.it)

I quaderni neri di Heiddeger non sono stati ancora pubblicati. Nero il colore della copertina e nero il contenuto. Accumulo inedito di pagine che il filosofo affascinato dalle potenti mani di Hitler, dedica alla sua passione antisemita. Ovviamente, si corre ai ripari e si prepara il terreno in modo tale che alla loro uscita si sia già tutti pronti ad “accettare l’inaccettabile”. Javier Marías si preoccupa di “uno spudorato ritorno al franchismo” a causa della nuova legge sull’ordine pubblico che riporterebbe la Spagna indietro nel tempo facendole rivivere un incubo che sembra non finire mai. Intanto, in tutta Europa, i movimenti d’ispirazione neo-nazista  Alba Dorata docet – acquistano sempre più consenso, ingrossando le file dei propri sostenitori e ripropongono quella tragica atmosfera di violenza, xenofobia, esaltazione, stigmatizzazione del nemico, nazionalismo retorico e sbrigativo, antieuropeismo, culto di una simbolica malata, autoritarismo.

giovedì 19 dicembre 2013

Poesie senza titolo

di Chiara Taormina (chiara.taormina@gmail.com)

La luna alla finestra
un bianco chiarore
spande
tra le perle
di sogno
dissipa l'ombra
dell'inverno
la tua mano
tra l'erba d'argento
che ondeggia al vento
scioglie come neve
il pianto
che ora nella notte
col suo flutto asperge
oscuri giardini.

mercoledì 11 dicembre 2013

Totalitarismo, democrazia, etica pubblica – Federico Sollazzo

di Franco Santangelo (francesco.santan47@alice.it)

L’alba del XX secolo si affaccia al mondo rottamando tutti i valori del secolo precedente e lasciando dietro un cumulo di macerie come se fosse passata una terribile bufera. Avviene un mutamento al quale il cittadino aderisce senza però avvertire la responsabilità delle proprie azioni, sentendosi estraneo ad ogni riferimento morale. Questo comportamento si riversa sulla politica, spogliandola di ogni etica e mettendo in crisi la democrazia e il capitalismo, motivi portanti alla base della nascita dei totalitarismi nel mondo. La stessa tecnica abbandona quel ruolo neutrale avuto al servizio dell’umanità intera per diventare strumentale e di parte, in favore di tutti gli assolutismi, facendo nascere una tempesta che rompendo ogni equilibrio ci ha consegnato l’orrore dei lager, delle due guerre mondiali e della bomba atomica. È questa la nuova tecnica che nasce col totalitarismo e giunge ai giorni nostri con la globalizzazione, figlia della paura di una terza guerra mondiale e che, insieme alla tecnologia avanzata del nucleare e del digitale, è diventata padrona assoluta del mondo naturale. Questo processo evolutivo ha modificato il rapporto fra natura e tecnica, in favore di quest’ultima, rendendolo sempre più precario e creando il presupposto affinché il totalitarismo del terzo millennio si identificasse come il totalitarismo della tecnica. La valutazione di questo rapporto è oggi al centro di dibattiti filosofici, politici, etici, biologici, psicologici, storici ed esplode con l’incalzare delle nuove tecnologie, che mettono in secondo piano la centralità dell’esistenza umana. La creazione di organismi internazionali, come l’Onu, non basta a scongiurare dissociazioni drammatiche fra nazioni, cercando di sostituire i valori del passato, sempre più de-ristrutturato, con nuovi valori che stentano ad apparire limpidi all’orizzonte.
Federico Sollazzo, docente di Filosofia Morale presso il Dipartimento di Letterature comparate dell’Università di Szeged (Ungheria), collaboratore di altre docenze presso l’Istituto di Sociologia dell’Università Corvinus di Budapest, conferenziere e lettore di Filosofia morale in Università straniere e italiane, membro del Comitato ungherese per le borse di studio relative a studi e ricerche postdottorato, collaboratore di molti periodici filosofici, ideatore e curatore della rivista «CriticaMente», ha pubblicato diversi saggi e libri e con l’ultimo suo lavoro, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, ha ricevuto il premio speciale per la sezione Saggio Filosofico dall’Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche.

lunedì 9 dicembre 2013

L'ultimo Pasolini

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.
Pier Paolo Pasolini, Siamo tutti in pericolo

1. Nell’ultima parte della sua vita Pier Paolo Pasolini si è dedicato ad un’intesa attività pubblicistica di impronta pedagogica (cfr. P. P. Pasolini, Gennariello, in Lettere luterane, Einaudi, Torino 2003 e F. Sollazzo, Pasolini, “Lettere luterane”, in “CriticaMente”, 13/01/2010, http://costruttiva-mente.blogspot.com/2010/01/pasolini-lettere-luterane.html). Tuttavia, stanti le sue considerazioni sulla società, non credo che tale attività si possa derubricare unicamente come progetto pedagogico, ritengo invece che essa rappresenti anche, da un lato, un chiarimento pubblico con se stesso e, dall’altro e soprattutto, un atto creativo incontenibile e inconsumabile: «I sociologi su questo si sbagliano, devono rivedere le loro idee. Loro dicono che il sistema mangia tutto e assimila tutto. Non è vero, ci sono delle cose che il sistema non può assimilare, non può digerire. Una di queste, per esempio, è proprio la poesia, perché secondo me è inconsumabile. Uno può leggere migliaia di volte un libro di poesia e non consumarlo. La consumazione è del libro, è dell’edizione, ma non della poesia (…) E così il cinema» (P. P. Pasolini, Pasolini rilegge Pasolini, Archinto, Milano 2005, p. 65. Cfr. anche Id., La poesia inconsumabile, in “YouTube”, 06/11/2011, http://www.youtube.com/watch?v=1My7T3WwxnA e Id., Che senso ha scrivere?, in “YouTube”, 02/08/2012, http://www.youtube.com/watch?v=WqlLLCUcASQ e inoltre E. Golino, Pasolini, il sogno di una cosa: pedagogia, eros, letteratura dal mito del popolo alla società di massa, Il Mulino, Bologna 1985 e A. Spadino, Pasolini e il cinema 'inconsumabile', Mimesis, Milano 2012).
Tutta questa sua ultima produzione, non solo pubblicistica ma variamente articolata e caratterizzata da uno specifico linguaggio col quale si vuole dar conto della mutata realtà, ruota attorno ad un preciso asse tematico: la “mutazione antropologica”. Nel presente scritto si cercherà di chiarirne alcuni possibili fraintendimenti e soprattutto di restituirne il significato originario, operazione possibile solo sforzandosi di passare attraverso gli occhi dell’Autore. Significato che appare come tragicamente attuale poiché l’argomentazione pasoliniana, costruita sull’analisi degli italiani del secondo dopoguerra, sembra oggi potersi applicare a tutto l’allargato Occidente, come peraltro egli stesso aveva osservato: «il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico» (P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 322, corsivo mio).

venerdì 6 dicembre 2013

Riso, Carnevale, immagini nel "mondo rovesciato". Un'interpretazione del nostro tempo

di Pietro Piro (sekiso@libero.it; II di 2)

III.

Il Carnevale ha aiutato per millenni la società a trovare dei parametri di riferimento, a stabilire delle situazioni limite in grado d’indirizzare i comportamenti e motivare l’agire. Ma quando il Carnevale diventa perpetuo, diffuso, politicamente organizzato e mediaticamente riprodotto, accade quell’inversione fondamentale che impedisce di stabilire quale “piano di realtà” stiamo vivendo.
Il tema del piano di realtà è essenziale per il nostro ragionamento. Dovremmo chiedere a Don Quijote come fa a vedere nei mulini a vento dei mostri terribili e minacciosi. Dovremmo farci spiegare come può un simulacro motivare un’azione tanto energica quanto la sua. Se riuscissimo a farlo, potremmo capire come mai ciò che riteniamo frivolo e volgare esercita molta più attrazione di ciò che riteniamo importante e nobile.

giovedì 5 dicembre 2013

Riso, Carnevale, immagini nel "mondo rovesciato". Un'interpretazione del nostro tempo

di Pietro Piro (sekiso@libero.it; I di 2)

La cancellazione della personalità accompagna fatalmente le condizioni dell’esistenza sottomessa concretamente alle norme spettacolari, e in tal modo sempre più separata dalle possibilità di conoscere esperienze autentiche, scoprendo così le sue preferenze individuali. Paradossalmente, l’individuo dovrà perennemente rinnegare se stesso, se tiene ad essere un po’ considerato in tale società. Infatti questa esistenza postula una fedeltà sempre mutevole, una serie di adesioni continuamente deludenti a prodotti fasulli. Si tratta di correre rapidamente dietro l'inflazione dei segni svalutati della vita. La droga aiuta a conformarsi a questa organizzazione delle cose; la pazzia aiuta a fuggirla.

G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo
  
I.

Il tema che affrontiamo oggi,[1] ritorna ossessivamente nel mio ragionare e questo è dimostrato da alcuni miei lavori passati[2] e recenti.[3] Oggi torniamo a riflettere insieme. Non ho nessuna pretesa di pensare per voi, ma vorrei riuscire a pensare con voi. Insieme.
Non ho nessuna verità sensazionale da rivelare né tantomeno discuto di argomenti nuovi o d’interesse vitale. Anzi, direi che le cose di cui vi parlo potrebbero essere classificate come un esercizio di ripetizione, il cui giovamento è valido nella misura in cui aiuta la memoria a rinforzarsi e a integrare sempre nuovi stadi di coscienza.
Integriamo dunque piani, stati di ragionamento, misure di senso in un ragionare sempre identico a se stesso e che tuttavia si rinnova continuamente in una metamorfosi che rende sempre nuovo l’eterno già detto.

sabato 23 novembre 2013

Quante facce ha la banalità del male? Uno studio su Arendt e Dostoevskij

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it; II di 2)

Come è già avvenuto per Eichmann, anche per Ivan il percorso intrapreso costringe a non analizzare tutti gli elementi che riguardano il personaggio dostoevskiano. Ci si limita, quindi, a prendere in considerazione soltanto quegli aspetti ritenuti essenziali per giungere ad un possibile collegamento con Eichmann. Per far ciò, si tenta di ricostruire la personalità di Ivan seguendo le caratteristiche che Dostoevskij stesso disvela, così come esse si susseguono nel romanzo. Ogni aspetto meriterebbe più spazio; ma ai fini del presente studio ci si limita soltanto a ripercorrere brevemente gli episodi che chiariscono la “filosofia” di Ivan Karamazov.
I lettori di Dostoevskij che conoscono anche Eichmann, potrebbero pensare che non ci sia nulla in comune tra Ivan e Eichmann. Effettivamente la prima descrizione che Dostoevskij fornisce di Ivan sembrerebbe confermarlo:
“questo ragazzo cominciò molto presto, fin dall’infanzia (a quanto si diceva, almeno), a manifestare non comuni e spiccate attitudini allo studio.”[1]
A ciò va aggiunto che Ivan era anche laureato in storia naturale. Al termine del presente itinerario si tenterà, invece, di mostrare quanto Ivan ed Eichmann siano vicini.
Il primo episodio del romanzo che bisogna citare si svolge nella riunione della famiglia Karamazov presso lo starets Zosima. In questa occasione il liberale Miusov riferisce i contenuti di un'argomentazione tenuta da Ivan:
“egli dichiarò solennemente in una discussione che in questo mondo non c’è assolutamente niente capace di costringere gli uomini ad amare i propri simili; che non esiste affatto una legge naturale per cui l’uomo debba amare l’umanità; e che, se c’è e c’è stato finora amore sulla terra, non è per una legge di natura, ma unicamente perché gli uomini hanno creduto nella propria immortalità. Ivan Fedorovic aggiunse poi tra parentesi che appunto a questo si riduce ogni legge di natura, cosicché se si distruggerà negli uomini la fede nella propria immortalità, senz’altro si inaridirà in loro non soltanto l’amore, ma ogni energia vitale, capace di perpetuare la vita nel mondo. Non basta: allora non ci sarebbe più niente di immorale, tutto sarebbe lecito, perfino l’antropofagia. Non basta ancora questo: concluse affermando che per ogni singolo individuo, come noi per esempio, che non creda in Dio, né all’immortalità della propria anima, la legge morale della natura deve immediatamente trasformarsi nel perfetto opposto dell’antica legge religiosa, e che l’egoismo spinto magari fino al delitto non solo deve essere permesso all’uomo, ma addirittura riconosciuto come la soluzione più necessaria, più ragionevole e quasi la più nobile delle condizioni in cui si trova.”[2]

mercoledì 20 novembre 2013

Quante facce ha la banalità del male? Uno studio su Arendt e Dostoevskij

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it; I di 2)

Nel presente studio si tenterà di verificare l’esistenza di un possibile collegamento tra la celebre formula utilizzata da Hannah Arendt nei confronti del criminale nazista Eichmann (la banalità del male), e il personaggio dostoevskiano di Ivan Karamazov[1]. Il procedimento adottato verte anzitutto sulla ricostruzione dell’uomo Eichmann, così come viene descritto da Arendt. Particolare attenzione è centrata sui problemi di carattere morale che tale descrizione comporta. In seguito si tenterà di stabilire se è possibile ipotizzare una relazione tra Eichmann e Ivan Karamazov, proprio alla luce del concetto di banalità del male. Tale relazione, se riscontrata, permette di pensare, da un altro punto di vista, la concezione del male che Dostoevskij esprime attraverso il personaggio di Ivan. Le acquisizioni che il presente studio crede di poter apportare, consentiranno, inoltre, di esprimere una considerazione generale sul rapporto tra filosofia e letteratura. 
Come precedentemente dichiarato, il presente studio intende iniziare dalla ricostruzione dell’uomo Eichmann, così come Arendt ne sviluppa la vicenda processuale (bisogna precisare che tale percorso non pretende di esaurire le molteplici problematiche che vengono sollevate dal saggio di Arendt). Per cogliere la personalità di Eichmann, è utile fare riferimento alla prima descrizione che Arendt fornisce:
“la giustizia vuole che ci si occupi soltanto di Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf Eichmann, l’uomo rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo: un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco (neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente cercherà (riuscendovi quasi sempre) di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo.”[2]
è importante, per il fine perseguito in questo studio, cercare di rendere manifesta la concezione che Arendt ha di Eichmann; concezione da cui dipende la formula della banalità del male, qui al centro dell’attenzione. Diviene necessario, quindi, esplicitare quali sono i convincimenti dell’imputato rispetto ai mostruosi crimini di cui è accusato. Puntualmente Arendt fornisce preziose informazioni in proposito:
“Richiesto su ciascun punto se si considerasse colpevole, Eichmann rispose: “Non colpevole nel senso dell’atto d’accusa”. In quale senso si riteneva colpevole? Nel corso dell’interminabile interrogatorio, che secondo le parole dello stesso imputato fu “il più lungo” che mai ci fosse stato, né la difesa né l’accusa e nemmeno i giudici si presero la briga di rivolgergli quell’ovvia domanda.”[3]

mercoledì 13 novembre 2013

Appunti sulla democrazia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Pagando anch’essa il suo dazio al corrente spirito dei tempi, la democrazia è oggi un brand produttivo, in crisi di produttività. Nel corso degli ultimi secoli, con un’accelerazione enorme nell’ultimo a causa del progresso tecnologico, la politica è gradualmente diventata un’estensione dell’economia (ovviamente intesa non come oikos ma come crematistica, oggi nella sua forma di capitalismo finanziario), assoggettando così i contenuti politici a quelli economici, rendendo la politica una funzione dell’economia. Questo scenario ha funzionato fintantoché l’economia era in attivo e la politica accettava di buon grado di prostituirsi ad essa (sedicente necessità a tutt’oggi ripetuta come un mantra) in cambio dei benefici di quell’attivo. Nel momento in cui questo quadro si è rotto (e c’era da aspettarselo dato che uno schiavo che è ormai tale nella sua forma mentis non necessita più di benefit che lo inducano alla e lo mantengano nella condizione servile), l’economia è uscita allo scoperto, manifestando di non avere più bisogno del suo obsoleto servo (la politica) e di voler amministrare uomini e cose in modo diretto: i tecnici. La politica, per parte sua, finge di volersi sottrarre da questo assoggettamento (di cui è complice) proponendo alternative demagogiche e populiste, per lo più basate su un mitico e mitizzato nomos della terra, sulla retorica della piccola patria (ripiegata su se stessa, come ogni “famiglia” che si rispetti); finge, perché lo scopo e l’orizzonte è sempre quello della gestione di un potere che o è economico o non è.

venerdì 1 novembre 2013

Alcuni possibili fraintendimenti sulla "mutazione antropologica" in Pasolini

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Si pubblica di seguito il video della Relazione, Alcuni possibili fraintendimenti sulla "mutazione antropologica" in Pasolini, tenuta da Federico Sollazzo al Convegno, Attualità di Pasolini "corsaro", organizzato da e presso l'Istituto Italiano di Cultura di Praga (Repubblica Ceca), nel 2012.
A seguire, un estratto dal dibattito.


lunedì 28 ottobre 2013

Lettera aperta a Pier Paolo Pasolini

di Francesco Pelillo (francesco.pelillo@gmail.com)

Caro Pasolini, il rammarico più grande che provo scrivendoti è di non averti potuto conoscere da vivo. Provo un senso di frustrazione nell'averti scoperto pienamente solo ora, grazie alla tua morte, che mi fa sentire molto simile alla canaglia che ora finge di ammirarti, ben contenta di non avere più il pungolo della tua presenza tra le costole, e solo la certezza che il tuo pensiero non resterà a marcire nelle biblioteche riesce a consolarmi.
Scrivendoti, cerco quindi di smorzare il mio senso di colpa nei tuoi confronti cercando di tenere aperto il dialogo su di te, nella speranza che intellettuali ben più preparati studino, analizzino e divulghino le implicazioni che derivano dal tuo pensiero, così che dalla tua morte nascano interessi sulla tua opera, ben maggiori di quanti ne hai suscitato da vivo.
Un'altra cosa che mi sta a cuore dirti è che non intendo mitizzarti. La ragione ispiratrice di questa mia risiede unicamente nella convinzione che tu sia stato un uomo che, per circostanze della vita e qualità intellettuali, ha avuto una capacità di analisi della condizione umana che, valutando il passato, ha trasceso il presente per prefigurare un futuro che doveva allarmare l'intera società.

domenica 20 ottobre 2013

Un secolo con Camus

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Si riporta di seguito l'Abstract della Relazione The Critical Reception of Camus in Italy: The mare nostrum as Sight for the tempus nostrum, tenuta da Federico Sollazzo al Convegno internazionale Les visages de la réception européenne de l’œuvre d’Albert Camus, svoltosi presso l'Università ELTE di Budapest (Ungheria), nel 2013.

The critical reception of Camus in Italy, mainly underlines the Mediterranean mark of the Camusian thought. In the last years are appeared in Italy several works on Albert Camus and all of them point out this feature: the “Thought at the Meridian”, a sign that crosses the entire Work of the Author, since the first works of success, as Le Myhte de Sisyphe and, of course, L’Homme révolté, in which the last chapter is entirely dedicated to this theme.

sabato 19 ottobre 2013

"Il Principe" di cinquecento anni

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Si riporta di seguito l'Abstract della Relazione Il Principe di Machiavelli, mezzo millennio dopo: contestualizzazione e eredità, tenuta da Federico Sollazzo al Convegno internazionale Discorso e cultura nella lingua e nella letteratura italiana, svoltosi presso l'Università di Craiova (Romania), nel 2013.  

Siamo ormai quasi giunti ai cinquecento anni dalla prima edizione de Il Principe di Niccolò Machiavelli (1532). 
Quest’opera è una tra le più lette e dibattute al mondo, quindi un “classico”, e proprio per questo spesso trattata come se fosse senza tempo (un classico è eterno per definizione) sottolineandone insistentemente la ritenuta attualità. Se quest’opera è un classico lo è perché la sua presenza persiste nel corso della storia, ma questo non deve fuorviarci nel cogliere le specificità con cui viene recepita di contesto in contesto né, soprattutto, le specificità originarie dell’opera.

domenica 13 ottobre 2013

Tecnologia, politica e complessità

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Come è ormai evidente, siamo entrati a pieno titolo nell’era della web-politica. Internet è ormai un prezioso strumento politico, sia perché diffonde informazioni in maniera più capillare rispetto ai mass-media tradizionali (sia per gli aggiornamenti in tempo reale sia perché ogni singolo utente può generare contenuti), sia perché consente un’interattività che sembra gratifichi molto gli utenti, sia perché si ritiene possa essere il vettore di una nuova diretta e compartecipata democrazia. Ma è così pacifico che le cose stiano così?
Poiché un fenomeno affonda sempre le sue radici nella situazione che lo precede e lo rende possibile, per capire qualcosa di questa web-politica sembra opportuno fare un passo indietro per vedere quali sono i tratti salienti di questa tecnologia e di questa politica, che vengono ora fuse insieme.

domenica 6 ottobre 2013

domenica 29 settembre 2013

Politica e utopia: la ‘Repubblica’ di Platone nel XX secolo

di Francesco Fronterotta (francesco.fronterotta@unisalento.it)

La politica disegnata dalla Repubblica platonica è stata fortemente condannata nel Novecento, in specie da Popper, a causa del suo “totalitarismo” e della sua distanza dai valori del liberalismo. Un modo per “discolpare” il progetto politico platonico da queste accuse è stato quello di rivendicare il suo carattere di “utopia”. Tuttavia, più che sulla “utopia” della Repubblica bisognerebbe insistere sulla sua “normatività”.

La Repubblica di Platone non cessa di suscitare, fra i filosofi e i commentatori, un dibattito intenso e controverso, tanto dal punto di vista del progetto etico e politico che disegna, quanto sul piano delle implicazioni psicologiche, epistemologiche e ontologiche connesse alla definizione del sapere dei filosofi che, secondo Platone, devono essere collocati alla guida di tale progetto. Non è questo, naturalmente, il contesto opportuno per suggerire un’interpretazione d’insieme della Repubblica; quanto mi propongo è, più modestamente, di segnalare alcune delle principali linee di discussione emerse nel dibattito del XX secolo e limitatamente all’esame del progetto platonico della καλλίπολις. Una difficoltà preliminare, che va in qualche modo immediatamente affrontata, riguarda proprio l’oggetto del dialogo: se Diogene Laerzio non mostra dubbi nel catalogare la Repubblica fra i dialoghi politici di Platone (III 50-51), è abbastanza facile constatare come l’opera sia caratterizzata da un intreccio tematico che non si lascia sciogliere in una scansione disciplinare ben determinata, se non al prezzo di schematizzazioni in parte forzate.
Il dialogo, infatti, si snoda come segue: mentre il libro I introduce il tema della giustizia, della sua natura e della sua definizione, con un’andatura e uno stile che ricordano abbastanza esplicitamente le indagini socratiche condotte nei cosiddetti “dialoghi giovanili”, con la consueta contrapposizione, a tratti assai violenta, alle posizioni ascrivibili alla sofistica, a partire dal libro II, il problema della giustizia viene esteso, per analogia, all’ambito della costituzione e della struttura della città, forse meglio identificabile per il suo carattere concreto e storicamente determinato (368b-369b), con il tentativo, condotto ancora nel libro III, di effettuare una ricognizione completa della struttura socio-istituzionale della città, con l’individuazione delle classi che la compongono e con la rigorosa ripartizione dei compiti e delle funzioni che a ciascun cittadino sono assegnati. Ma è il libro IV che produce una svolta nell’analisi, perché, riproponendo l’analogia fra l’indagine sulla giustizia a livello individuale e al livello della città, giunge a stabilire la sua definizione universale come consistente nell’esercizio, per ogni individuo (e per ogni componente psico-fisica di ogni individuo) o per ogni agente istituzionale (cittadino, classe sociale, città), della sua funzione propria: la giustizia è, di conseguenza, τά έαυτου πράττϵιν (433a), in base al principio, che rappresenta un filo conduttore narrativo e a un tempo un nucleo teorico situato, implicitamente ed esplicitamente, al cuore della Repubblica, secondo cui l’esercizio, da parte di ogni elemento particolare di un insieme, della propria funzione naturale compone, garantisce e preserva l’equilibrio armonico dell’insieme, dunque, in tal senso, la sua τάξις, che coincide di fatto con la “giustizia” della sua disposizione strutturale e funzionale. A partire dal libro V, la sfida rivolta a Socrate dai suoi interlocutori consiste nel precisare le condizioni di possibilità di una simile struttura istituzionale, di cui vengono fissate dapprima le “scandalose” tappe socio-politiche, con le celebri “ondate” relative alla necessità della comunanza pianificata della proprietà, della produzione dei beni e della procreazione, fino alla più ardua esigenza del governo dei filosofi. Particolarmente quest’ultimo assunto richiede, dall’ultima parte del libro V e fino al VII, una rigorosa giustificazione, che si articola attraverso un’assai complessa dimostrazione che sancisce la differenza fra il sapere dei filosofi e le opinioni degli uomini comuni, premessa indispensabile per spiegare e difendere il ruolo dominante dei filosofi nella città, e di seguito stabilisce l’opportuno curriculum formativo dei futuri filosofi-governanti. Il libro VIII esamina poi, con il rigore diagnostico di una vera e propria analisi sociologica della natura e delle degenerazioni del potere politico nella dialettica del suo esercizio istituzionale e sociale, le diverse forme di governo storicamente corrispondenti alle forme assunte come canoniche nel pensiero politico greco e, del resto, di fatto coincidenti con i principali generi di regime concretamente prodottisi nel mondo greco, cui segue, nel libro IX, una ripresa del tema originale della giustizia, al fine di dimostrare, tornando nuovamente sul piano psicologico individuale, la superiorità e la felicità del giusto rispetto all’ingiusto, in virtù del parallelismo stabilito, sul piano della forma di governo, con la relazione fra il sistema istituzionale più giusto rispetto all’ingiusto. Il dialogo, che potrebbe a questo punto dirsi compiuto, prosegue invece nel libro X, nel quale si torna, pur se con accenti diversi, sulla giustificazione della superiorità del sapere dei filosofi, che va assunto come paradigma pedagogico e gestionale della condotta individuale e collettiva, rispetto al sapere comune rappresentato dalle forme abituali della cultura tradizionale, per esempio dell’arte imitativa e della poesia, epica o tragica. Un lungo e complesso monologo mitologico, dedicato all’esposizione del destino dell’anima individuale nel corso della sua vicenda immortale, conclude la Repubblica, trasponendo di fatto l’affermazione della superiorità e della desiderabilità della giustizia rispetto all’ingiustizia, dall’ambito psico-fisiologico e socio-politico all’ambito propriamente metafisico ed escatologico.

lunedì 9 settembre 2013

Francisco Franco e le metamorfosi del potere

di Pietro Piro (sekiso@libero.it)

Fabio Lo Bono intervista[1] Pietro Piro sul libro: Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza e del potere.
Lo Bono: Abbiamo il piacere di averti qui con noi e voglio approfittare per farti delle domande ad “ampio raggio”. In questi anni ti sei occupato di temi molto importanti, nelle pubblicazioni, nei seminari, nei dibattiti. Però, mi pare che la questione del potere ti stia particolarmente a cuore, mi sbaglio?
Piro: Il tema del potere è una questione fondamentale che riguarda l’intero impianto del mio lavoro critico. Credo che ogni uomo sperimenti sulla sua pelle – per così dire  il problema del potere. Gli psicoanalisti ci hanno insegnato che nel bambino, il potere del genitore che si esprime anche attraverso il semplice sguardo[i], può essere vissuto come una forte violenza. Questo significa che noi entriamo in contatto con il potere sin da piccoli e poi, per tutta la vita, non facciamo altro che oscillare tra il desiderio del potere e la paura del potere[ii]. Il potere esercita una doppia fascinazione: ci attrae e ci spaventa allo stesso tempo[iii]. Però, occuparsi del potere per me significa andare aldilà della fascinazione. Indagare ciò che sta a fondamento del potere.

lunedì 26 agosto 2013

Verità e mondo in Dostoevskij, a partire dall’interpretazione di Camus

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it)

A partire dall’interpretazione che Camus svolge in L’uomo in rivolta[1], si tenterà di trarre una possibile valutazione sull’uso del linguaggio in Dostoevskij.
Pubblicato nel 1951, questo saggio di Camus tenta, tra gli altri, un confronto con la figura di Ivan Karamazov nel paragrafo intitolato: Il rifiuto della salvezza. Esaminiamo brevemente il percorso di Camus fino al punto che qui è di interesse.
Lo scrittore francese comincia riconoscendo che nella figura di Ivan viene fatto un passo avanti rispetto alla rivolta romantica: "Con Dostoevskij invece la descrizione della rivolta farà un passo avanti. Ivan Karamazov prende le parti degli uomini e pone l’accento sulla loro innocenza. Afferma che la condanna a morte che grava su loro è ingiusta. Nel suo primo movimento almeno, invece di difendere la causa del male, difende quella della giustizia mettendola al di sopra della divinità. Non nega dunque assolutamente l’esistenza di Dio. La confuta in nome di un valore morale. Era ambizione dei ribelli romantici parlare a Dio da pari a pari. [...] Con Ivan invece il tono muta. Dio è a sua volta giudicato, e dall’alto".[2]
Quindi Ivan ammette l’esistenza di Dio in via ipotetica per poterlo poi giudicare in nome della giustizia, posta da Ivan al di sopra della divinità. Dio viene allora condannato al nulla in nome della giustizia.

sabato 24 agosto 2013

"Limite" di Serge Latouche. Ennesima imposizione o tanto attesa liberazione?

di Pietro Piro (sekiso@libero.it)

Chi mette il proprio cuore nella esclusiva ricerca dei beni di questo mondo ha sempre fretta, perché non ha che un tempo limitato per trovarli,
procurarseli e goderne.
Il pensiero della brevità
della vita lo pungola senza requie.

Alexis de Tocqueville, La democrazia in America
  
I.

Serge Latouche il cui nome è indiscutibilmente legato il concetto di decrescita,[1] ci offre una riflessione serrata su uno dei punti più dolenti nel vissuto dell’uomo contemporaneo: la questione del limite. Il nucleo teorico dell’intero discorso di Latouche si fonda sua una domanda tanto diretta quanto drammatica:

La scienza e la tecnica avrebbero dato una risposta a tutto. Ma se l’uomo può tutto, perché dovrebbe rimanere prigioniero della camicia di forza della morale? Il diritto a godere senza nessun intralcio, conseguenza dell’abbondanza limitata, non può che abolire tutte le norme sulle quali si fondava la vita in società.[2]

La domanda di dostoevskiana memoria[3], ci mette tutti con le spalle al muro. Non sono forse le nostre norme morali una semplice verità autoimposta che ci limita rispetto a un mondo diventato oramai “senza morale” e “senza limiti” dove il più forte vince e il più debole soccombe perché si è dotato di una moralità che invece di favorirlo lo costringe a una prassi che gli impedisce il successo? La dottrina neoliberista[4] non ha forze spezzato definitivamente il legame tra moralità e profitto (ma è mai esistito veramente questo legame, è mai esistita un’accumulazione senza sfruttamento?) rendendoci tutti complici di un immensa opera di depredazione? Pare che Latouche propenda per questa visione critica:

In effetti, l’imperialismo dell’economia abolisce le frontiere tra morale, politica ed economia. Il potere praticamente totalitario del consumismo convive perfettamente con il caos politico, sotto l’occhio delle telecamere di videosorveglianza.[5]

A questa deriva dell’illimitata voracità, Latouche cerca di contrapporre una prassi del limite che possa arginare l’imponente fiume dei divoratori, ingrossato sempre più dagli affluenti della persuasione organizzata che spingono nella direzione dell’illimitato e dello sconfinato:

Contrariamente a quello che pretende questa ideologia, la frontiera non isola, filtra. Le frontiere per quanto arbitrarie (e c’è da sperare che lo siano il meno possibile), sono indispensabili per ritrovare l’identità necessaria allo scambio con l’altro. Al contrario di quello che sostiene la tesi mondialista, non c’è democrazia senza capacità del corpo dei cittadini, a tutti i livelli, di darsi dei limiti. Si può dire che la democrazia può funzionare soltanto se la politeía è di piccole dimensioni e fortemente ancorata ai valori specifici.[6]

Latouche si batte per una nuova forma di organizzazione mondiale che non veda l’Occidente dominare con il suo potere aggressivo l’intero pianeta:

mercoledì 21 agosto 2013

Eisler, "Uomo lupo" e De Benedetti, "Céline e il caso delle 'Bagatelle'". Due recensioni

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Un mondo pacifico è possibile? Tradotto per la prima volta in Italia Uomo lupo di Robert Eisler

Tutti noi abbiamo sentore che dentro il nostro essere esiste una regione refrattaria alla ragione e alla vita artificiale condotta in società. Freud chiamò questa regione: inconscio. Jung si spinse ancora oltre e parlò di inconscio collettivo. Secondo tale concezione la mente umana non è una tabula rasa ma è dotata di archetipi. Ossia di immagini primordiali comuni alla nostra specie e che ogni cultura elabora autonomamente attraverso riti e miti. La Caduta dell’Umanità, il Diluvio, la Grande Madre sono alcune di queste immagini.
Sulla scia delle scoperte di Jung l’esperto di iconografia e storico delle religioni Robert Eisler (1882-1949) pubblicò nel 1948 un’opera da poco tradotta in italiano con il titolo: Uomo lupo. Saggio sul sadismo, il masochismo e la licantropia (Edizioni Medusa, 316 pagg., 24 euro). A dire il vero Uomo lupo è per ora l’unico libro di Eisler nella nostra lingua. Si tratta essenzialmente di un saggio sull’aggressività umana che scava nella notte dei tempi per riportare alla luce le cause profonde del sadismo e del masochismo. Eisler compie quest’impresa da archeologo in virtù di una sbalorditiva erudizione. Ma se una qualità del libro è data dallo sterminato sapere del suo autore non meno interessanti sono le tesi esposte (peraltro in solo una quarantina di pagine; il resto del volume è composto da note, schede e appendici).

lunedì 19 agosto 2013

Riflessioni semi-serie di un emigrante dell'inconsueto

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Paul A. Valenti, Io amo me stesso, ma è amore non corrisposto, L'Autore Libri Firenze

sabato 17 agosto 2013

Fenomenologia e fenomenologia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Mauro Cascio, Fenomenologia della Sfiga. (Un contributo alla scienza), Parvapolis

domenica 11 agosto 2013

Sul morboso rapporto tra Stati Uniti d’America e Israele

di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com)

La guerra al terrorismo è ormai aperta da anni, lo sappiamo. Gli integralisti islamici, pericolosi fondamentalisti musulmani, sono i nemici dei lumi e della democrazia, della libertà. Sappiamo altrettanto bene che dopo quell’ormai famigerato “11 settembre” le accuse di imperialismo rispetto alla politica estera (alla politica tout-court) americana sono state molte, più o meno motivate e più o meno fondate. Gli americani considerano l’America non tanto un territorio, quanto un’idea o, se si preferisce, un’ideologia, o ancora, più semplicemente (forse troppo semplicemente, e sappiamo ormai bene come il più terribile dei mali può risiedere nella più semplice banalità) uno stato d’animo, tanto che quando la Corte Suprema statunitense condanna il regime carcerario di Guantanamo lo fa non tanto in ragione dell’inaccettabilità delle torture lì praticate, quanto per il fatto che il diritto americano, non conoscendo frontiere, deve vigere e valere – quasi fosse uno spirito che aleggia su tutto il mondo, senza radicamenti o identificazioni con un territorio specifico (statuale o cittadino che sia) – anche a Guantanamo! Verrebbe da dire che aveva davvero ragione Deleuze quando sosteneva che la vita è tutta una questione di giurisprudenza, di cosa l’uomo considera accettabile o meno e di come sceglie di renderlo accettato o meno. La cosa interessante è che quest’assenza di Ortung, di collocazione spaziale ben precisa, rende il popolo americano facilmente esposto al messianesimo, alle idee di redenzione e di salvezza millenaria, alle prospettive escatologiche e apocalittiche, e sappiamo bene come il popolo che – ormai da secoli – ha fatto (talvolta ha dovuto fare) di tutto ciò il vero e proprio marchio di fabbrica è quello ebraico. Per questo il popolo americano e quello ebraico (quello israeliano) sono così amici e sodali (al di là delle tante e sempre sottolineate ragioni più strettamente storiche, politiche e – soprattutto – economiche)? Trovo quasi sconvolgenti quelle ricerche (come una ripresa da The Economist del 5 agosto 2006) che rivelano il “tasso di religiosità” della popolazione americana: quasi il 90% dei cittadini statunitensi si considererebbe credente, il 79% crederebbe nell’Immacolata Concezione (si scrive con le maiuscole?) e il 30% crederebbe che Gesù è prossimo alla seconda venuta, dopo una grande battaglia che si verificherà nel Medio Oriente in seguito alla nascita del Grande Israele, alla ricostruzione del terzo tempio di Salomone e al bombardamento atomico dell’Iran. C’è da mettersi le mani nei capelli, e lo dico molto seriamente: un americano su tre pensa che lo stato israeliano sia stato concesso al popolo ebraico da Dio (e io che credevo ci fossero stati dei “tavoli di trattativa” dopo la seconda guerra mondiale!), come “antipasto” del Secondo Avvento (ancora con le maiuscole?) di Gesù. Se non fosse tutto così drammatico mi verrebbe da esclamare “Oh mio Dio!” (oh my god!). Mi sembra persino troppo buono Agostino Carrino quando parla semplicemente di diffusa labilità etica e intellettuale, di un terreno generale fertile a fenomeni come quello degli evangelisti (diffusissimi negli U.S.A.), che credono nella Bibbia a tal punto da non mandare i propri figli in quelle scuole in cui si insegnano (sciagura!) le teorie di Darwin e non il comprovato creazionismo.

martedì 6 agosto 2013

Parlare con i muri

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Storia delle camere, un bel libro di Michelle Perrot

E’ un andante con brio l’ultimo lavoro di Michelle Perrot. Stiamo parlando di Storia delle camere, Sellerio 2011, 414 pagg., 18 euro. Il plurale del titolo è d’obbligo e lo si comprende man mano che Perrot ci introduce in un affascinante viaggio nella modernità ricostruendo, tappa dopo tappa, la vicenda di uno spazio domestico così scontato da sfuggire alla riflessione. D’altra parte, ciò che nella vita di ogni giorno facciamo senza pensare e che consideriamo naturale nasconde in realtà contenuti storico-culturali profondissimi e difficili da dipanare. Basti pensare alla disinvoltura con cui guardiamo l’orologio. Sembra un gesto qualunque. In realtà é il risultato di un lungo processo evolutivo che comprende persino violente dinamiche di potere. Esattamente come per le camere da letto.
Insieme ad alcune branche della sociologia e dell’antropologia, la storia sociale si è presa in carico l’indagine della vita quotidiana e della vita privata fornendoci quest’ultima ricerca della Perrot. Un lavoro grazie al quale comprendiamo quanto un gesto tanto spontaneo come infilarci la sera a letto sia saturo di avvenimenti, interdetti, saperi, controlli, conflitti, suggestioni. Non potrebbe essere altrimenti perché, come afferma la stessa Perrot, le strade che conducono in camera sono davvero tante: nascita, riposo, sonno, amore, lettura, scrittura, ricerca di sé, meditazione, preghiera, reclusione, malattia, morte. E a ognuna di queste funzioni corrispondono comportamenti che mutano profondamente nel corso della storia.

lunedì 29 luglio 2013

Un confronto tra Dostoevskij e Nietzsche a partire da Raskolnikov

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it)

Poiché si tenterà di mostrare come un tema fondamentale del pensiero di Nietzsche sia già anticipato in Dostoevskij, vale la pena ricordare che il romanziere russo non conobbe mai l’opera del filosofo tedesco.
Anzi, fu Nietzsche che conobbe l’opera di Dostoevskij.
Uno stralcio dalle lettere del filosofo ci informa sulla reazione che ne ebbe [1887]:
“Fino ad alcune settimane fa non conoscevo neppure il nome di Dostoevskij, da quell’ignorante che sono, che non legge nessuna rivista! Facendo per caso un salto in libreria mi è capitata sotto gli occhi una sua opera appena tradotta in francese, L’esprit souterrain... l’istinto delle affinità (o come dovrei chiamarlo?) si è fatto subito sentire, la mia gioia è stata straordinaria: devo andare indietro fino alla mia conoscenza con Il rosso e il nero di Stendhal per rammentarmi una simile gioia”[1].
Per avere un ulteriore riferimento, va ricordato che Delitto e castigo viene pubblicato nel 1866, quando Nietzsche ha soltanto 22 anni.
Il confronto che qui si vuole avanzare verterà sul movente dell’omicidio di Raskolnikov e sulla catastrofe che ne seguirà. Seguendo questo filo, si sceglieranno i brani più significativi e ritenuti adatti a questo scopo.
Il primo forte indizio sul perché Raskolnikov compia l’omicidio è fornito in occasione di un dialogo che coinvolge due uomini (uno studente ed un ufficiale) in una taverna, seduti vicino il nostro eroe. I due si chiedono se sia giusto uccidere la vecchia usuraia (la stessa persona che sarà vittima di Raskolnikov), il tutto poco dopo la perlustrazione che il giovane protagonista ha fatto in casa della vecchia con la scusa di portarle un pegno in cambio di soldi.

giovedì 25 luglio 2013

"Il primo uomo", Gianni Amelio su Albert Camus, due righe sul film

di Maurizio Montanari (mauriziomontanari@libero.it)

"Poteva finalmente tornare a quell'infanzia da cui non era mai guarito, a quel segreto di luce, di povertà calorosa, che lo aveva aiutato a vivere e a vincere ogni cosa" (A. Camus, Il primo uomo)

L'ultimo film di Gianni Amelio Il primo uomo, tenta di trasportare le atmosfere tiepide ed edipiche della ricerca che Camus fa a ritroso nel tempo e nella terra, cercando il padre.
Non ci vuole molto tempo a localizzare il luogo nel quale riposano i resti mortali: un cimitero militare assolato e spoglio. La ricostruzione simbolica del padre che fu, dei suoi luoghi e delle sue parole, delle abitudini e delle usanze.
Camus che cerca il padre, ritrova il maestro.

giovedì 11 luglio 2013

F. Sollazzo, "Totalitarismo, democrazia, etica pubblica": A Review and a Reply

by Giorgio Baruchello (giorgio@unak.is)


The book comprises three parts, entitled respectively “Moral philosophy”, “Political philosophy” and “Ethics”. An appendix concludes the volume, containing an essay on the issue of techno-science in Martin Heidegger's thought.
In the first part, Sollazzo tracks recent evolutions in the theoretical and historical understanding of social and political control of human collectivities, such as: (1) “totalitarianism” (17) in the work of Vaclav Havel and his mentor Jan Patocka; (2) “system” (20) in that by Herbert Marcuse; (3) “terror” (25) in Max Horkheimer's; (4) “stereotyped reasoning” (28) in Theodor Adorno's; (5) “rationality deficit” (28) in Juergen Habermas'; (6) “empire” (30) in Michael Hardt's and Antonio Negri's (30); (7) and “culture” according to Pier Paolo Pasolini (34). This initial section is followed by an exposition of the philosophical anthropology of three great minds of the 20th century, namely Arnold Gehlen, Helmuth Plessner and Max Scheler. A common theme is retrieved in their thought about human nature and the human condition, that is, the uniqueness of humankind's inextricable admixture of biological and psychical elements, which allow the human being to be part of nature as well as to transcend it through its “peculiar” (43) intellectual – for the first two authors – and spiritual – for the third – abilities. The ensuing chapter stresses the crucial role played by the species-wide biological and emotional make-up in providing a valid ground for the establishment of credibly universal philosophical anthropology and ethics. Remarkable is the attention paid to the notion of vital “needs” (47) as a stark and straightforward reminder of our common humanity. The field of ethics is further explored in a chapter devoted to communitarianism as a representative reaction to utilitarian individualism, which fails to acknowledge the deeply interpersonal preconditions for any meaningful human existence.

martedì 2 luglio 2013

L'Ungheria di Orban e Fidesz

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

(Si pubblicano di seguito un articolo e un'intervista, curata da Maurizio Montanari, di Federico Sollazzo sulla situazione socio-politica dell'Ungheria del Primo Ministro Viktor Orbán e del suo partito di Governo Fidesz.)

Ungheria, Europa, 2013

In Ungheria, Paese in cui vivo da tre anni insegnando presso l’Università di Szeged, proprio in questi giorni il Parlamento, guidato per due terzi dall’attuale partito di Governo Fidesz del Primo Ministro Viktor Orbán, ha approvato una riforma costituzionale che segna, di fatto, un golpe bianco.
Si palesano così tutti i limiti di una democrazia ridotta a mero meccanismo, che nel rispetto formale di tale meccanismo procedurale può svuotare dall’interno i valori che si condensarono in quello stesso meccanismo contingente, e che però, contrariamente a quanto spesso si professa, non devono essere fatti coincidere con quel meccanismo.

giovedì 20 giugno 2013

Federico Sollazzo: totalitarismo, democrazia, etica pubblica

di Pietro Piro (sekiso@libero.it)

La società modernizzata fino allo stadio dello spettacolare integrato è contraddistinta dall’effetto combinato di cinque caratteristiche principali che sono: il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente.
 [G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo]

I.
Il libro di Federico Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica [1] oltre ad essere ben argomentato e ben scritto, ha il merito di riportare la nostra attenzione su temi che senza nessun timore possiamo definire essenziali. Il libro si propone di affrontare argomenti complessi e densi dal punto di vista umano ed ermeneutico ed è diviso in tre grandi sezioni: Filosofia Morale, Filosofia Politica ed Etica. Il testo [costruito come un percorso in cui la storicità degli eventi segna il susseguirsi delle argomentazioni] pre-pone il fenomeno del totalitarismo come elemento di partenza e punto d’irradiazione per sviluppare tutte le argomentazioni successive. Riteniamo sia dunque metodologicamente corretto, partire proprio dall’analisi di Sollazzo su quest’argomento per sviluppare poi le nostre argomentazioni critiche. Il libro si apre con quest’affermazione:
«Il crollo dei regimi totalitari non ha certo segnato il superamento della problematica del controllo totale sugli individui, del dominio, ma un mutamento della forma e dei modi di attuazione dello stesso, un suo perfezionamento. Queste dinamiche rendono necessario il ricorso a un nuovo strumentario concettuale, del quale fondamentali riferimenti, fra gli altri, sono i termini “sistema” e “Impero”» [2].

martedì 11 giugno 2013

Totalitarismo e democrazia. Incontro con Federico Sollazzo

Un nuovo appuntamento, il quinto, della rassegna "Le ragioni della politica" a cura dell'«Osservatorio filosofico». Federico Sollazzo è Ricercatore e Docente di Moral Philosophy e Political Philosophy presso l'Università di Szeged (Ungheria). Tra le sue pubblicazioni il volume Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Aula Magna del Consorzio Universitario c/o Cantina Sperimentale, via della Cantina Sperimentale s.n.c., Velletri

sabato 8 giugno 2013

La lingua tra proprio ed estraneo. In ascolto dell’altro

di Moira De Iaco (moiradeiaco@libero.it)

(Si pubblica di seguito il testo giunto al primo posto nella sezione Articoli filosofici della VII edizione del Premio Nazionale di Filosofia Le figure del pensiero dell'Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche)

Si potrebbe immaginare il risveglio coscienzioso del parlante, illuso proprietario irretito nella lingua, come una metamorfosi kafkiana: il parlante inconsapevole ora divenuto parlante consapevole che pensa la lingua stando già sempre inevitabilmente nella lingua, si rende improvvisamente conto di non poterla possedere come un oggetto a lui contrapposto o contrapponibile giacché essa da sempre lo abita ed è, a sua volta, irrimediabilmente abitata dall’estraneo. Quando pensiamo il linguaggio lo pensiamo infatti già sempre nel linguaggio, più precisamente nella lingua storica in cui pensiamo; compiamo dunque un’operazione metalinguistica per la quale è impossibile ridurre il linguaggio a oggetto. Il linguaggio si manifesta solo nel linguaggio serbando un’irriducibile resto d’estraneità. Ciascuna lingua attraversa i parlanti dando loro un senso di appartenenza su uno sfondo di non appartenenza, di estraneità. Come Gregor Samsa risvegliatosi scarafaggio, spogliato improvvisamente della sua identità, incapace in quella forma estranea di vivere secondo quella che era la sua presunta identità, ma nella quale egli tuttavia quotidianamente esperiva sotto forma di alienazione l’estraneità, il parlante divenuto consapevole della forma cangiante e plurivoca della lingua, si ritrova incapace di fondare la propria identità sull’identità della lingua. Ciascuna lingua non fonda infatti l’identità della nazione o del singolo parlante, nella misura in cui essa è radicalmente intaccata dall’estraneo. Potremmo perciò dire con Waldenfels che la lingua straniera è una qualità di ciascuna lingua. Non esiste una lingua pura. La prima lingua straniera per ciascuno di noi è la lingua madre, la quale viene appresa dai genitori come fosse per l’appunto una lingua straniera. Ciascuno di noi si sente a casa nella lingua materna e si illude che essa sia propria. Ci sentiamo, per così dire, irrimediabilmente abitati da questo monolinguismo, poiché siamo inconsapevoli delle voci che in esso parlano, dell’alterità che attraverso di esso ci abita. Ciò che è identico ci rende sicuri, ci fa sentire protetti, ci induce alla difesa dall’estraneo. Nel monolinguismo tuttavia c’è solo l’illusione del dominio dell’identità; a voler ascoltare bene, infatti, non parliamo mai la lingua dell’identico, bensì quella dell’estraneo, nella misura in cui le parole, siano anche quelle della lingua a noi più familiare, ossia della madrelingua, non sono mai “nostre”, non sono mai una proprietà privata: sono già sempre dell’altro, sono venute dall’altro. La lingua ci pone dunque da sempre in relazione con l’estraneo consentendoci in tal modo di prestare ascolto all’altro. Essa gode di un interno plurilinguismo[1] ed è plurivoca. Nella lingua, come sottolinea Bachtin, si sentono le voci dei diversi linguaggi e delle altre lingue che la costituiscono compromettendone l’identità. Nella madrelingua non siamo mai del tutto situati. Essa ci attraversa e resta per noi impossibile abitarla come fissa dimora, nella misura in cui è impossibile spiegarla, coglierla una volta per tutte in modo univoco, concettualizzarla. Lo sguardo-attraverso la lingua, è sempre perciò uno sguardo al limite: uno sguardo in esilio.